di Maria Cristina Maccarinelli per Espoarte.net, 10 novembre 2018
La mostra Gustose e Dolcissime di Armida Gandini (1968) si sviluppa in quattro spazi che ospitano altrettanti lavori, alcuni dei quali realizzati site specific. Ad accogliere lo spettatore nel primo spazio della galleria è situato il video Pulses (vincitore del prestigioso Premio “Paolo VI” edizione 2018) e a completamento dell’opera, posizionate nella cornice naturale della decorazione pavimentale, le Gustose e Dolcissime lacrime di vetro di Murano.
Il volto della Vergine nel trittico de I Sette Sacramentidel pittore fiammingo Roger Van Der Weyden, è il protagonista assoluto, un’icona fissa e immobile per tutta la durata del video, dalla quale scendono le otto lacrime che, grazie all’intervento artistico della Gandini, diventano fonte di luce. L’artista spiega come “Il dolore di Maria si condensa nel bagliore di ogni goccia di pianto, unica nota espressionista in una rappresentazione statica e contemplativa.” Pure, cristalline e colme di significato sono le lacrime sculture che, sebbene simbolicamente rappresentino il pianto e quindi qualcosa in divenire e momentaneo, qui vengono immaginate come un processo continuo e perpetuo. Ecco allora che lacrima dopo lacrima si arriva ad una sedimentazione, ad una stratificazione dalla quale prendono vita otto forme differenti. La trasparenza del vetro e i suoi riflessi ricordano la leggerezza e l’inconsistenza dell’acqua ma le grandi dimensioni e il pieno della materia trasferiscono perfettamente l’idea di un pianto perpetuato che racchiude secoli di dolore. Entrando nella stanza laterale, dedicata a Dora Maar, l’allestimento minimale enfatizza la forza evocativa delle opere: la video installazione Adora del 2016 così come la serie di Coordinate o ancora la piccola scultura in carta Stand up raccontano, attraverso l’uso del bisturi e dell’intaglio, l’arte del togliere, dello svelare, quello che restò della modella, musa e amante di Picasso, donna bellissima e fotografa di talento che prigioniera dell’amore per il grande maestro non seppe rimarginare le ferite del suo cuore.
A stilla a stilla, 2018, catino in marmo incavato, acqua a raso, luce direzionata, gocce che cadono a ritmo costante ogni 20 secondi circa, diametro cm 30, installazione dimensioni d’ambiente
A stilla a stilla, chiusa in uno spazio raccolto e buio, come un scrigno per preziosi, ripropone il tema della stratificazione delle lacrime nel tempo, pensata dall’artista come “una sorta di materializzazione di gocce pietrificate in conseguenza di una caduta costante e infinita”. Il catino di marmo rosa lievemente incavato, accoglie l’acqua proveniente dalla caduta costante di una goccia ogni 30 secondi. Infine nell’ultima sala troviamo Pagine bagnate, una grande parete di collages e disegni applicati sulle pagine del libro Antropologia della lacrima. Escursioni filosofiche e letterarie. Qui Gandini è intervenuta ritagliando in positivo o negativo, isolando particolari di sculture o architetture presi da pagine di storia dell’arte e trasferendoli in un nuovo contesto, talvolta inserendo anche forme astratte colorate. Armida Gandini attraverso questa mostra indaga il tema del pianto attraverso la lacrima, sottolineandone il valore universale in modo poetico e intimo. Le sue opere sono presenze delicate e raffinate, ma con, al loro interno una forza e una potenza evocativa capace di emozionare lo spettatore.
Armida Gandini. Gustose e dolcissime a cura di AnnaMaria Chiara Donini testi in catalogo di AnnaMaria Chiara Donini e Massimo Tura
(…) Dalle lacrime parte questa mostra, nella prima sala
espositiva che si incontra entrando in Galleria. A terra sono deposte – il caso
di dire, come vedremo – sculture in vetro di Murano di Armida Gandini (Gustose,
dolcissime)[1].
Sembrano opere astratte, morbidamente piramidali, di una trasparenza acquorea.
In fondo all’allestimento a terra di queste sculture è visibile un video, privo
di colori, con un baluginio intermittente che si muove, lo percorre, lo svela.
Si tratta di un particolare tratto da una scena centrale sul compianto del Cristo nel Trittico dei SetteSacramenti[2] del Quattrocentesco fiammingo Rogier van der Weyden, di un ingrandimento su parte del viso di Maria. Gandini non solo isola di tutta la composizione pittorica il volto della Vergine, ingrandendolo, ma toglie il colore. Toglie abside, vani forestati di colonne solenni nella chiesa di Poligny. Toglie cavalcata di archi acuti e vetri quadrettati in piombo, addobbi clericali e angeli che in volo srotolano cartigli, il purpureo San Giovanni che forte e contrito regge il corpo della Vergine vestito di un pesante drappeggio blu, il colore della fedeltà.
Gandini sbuccia l’opera proprio di quella palette che ha
decretato la gloria, il successo internazionale dei Fiamminghi, scopritori
della tecnica a olio. Brillanti e saturi come fossero laccati, ispessiti da
lente caute velature traslucide di colore che permettevano di ottenere la
sfumatura cromatica esatta desiderata, e di catturare tutta la luce possibile.
I rossi carminio delle stole, i rosa pesca e i pallori illividiti negli
incarnati dell’estrema unzione, i nocciola della lanugine riccioluta di un cane,
i blu zaffiro delle vesti dei santi, i verde bandiera e quelli salvia di
ornamenti e gemme, i neri impenetrabili del lutto, gli ori sfavillanti delle
aureole: via.
Di tutto questo tesoro che inorgoglisce lo sguardo eroicamente esteriore delle opulente Fiandre Quattrocentesche, l’autrice si e ci sgravia, leva e solleva a favore di un’introspezione, di un mettere a nudo l’interiorità che da sempre è al centro dell’impegno di verità (naturale e psichica) della sua ricerca artistica. Colore, da coelor e non da color, nasconde. Soprattutto nasconde il disegno, che adesso si fa esoscheletro di emozioni ed espressività da cui siamo sempre stati distolti, distratti. Compare come per emersione, nel video Pulses[3] il volto di Maria ai piedi della croce.
Altrove, nel Trittico della Crocifissione[4], Maria è inginocchiata, ha la schiena dritta, come sostenesse il peso impossibile dello strumento di tortura e di morte del figlio; la sua guancia è adagiata al braccio inferiore, sul quale cola sangue. Rieccoci al tatto, al contatto, alla centralità di un corpo senziente, essudante e secernente sangue, acqua dal costato e lacrime dagli occhi. Qui, invece, nel Trittico dei Sette Sacramenti, Maria si sente mancare. Mantiene gli occhi aperti, non sviene, come accade durante le doglie del parto: per quanto elettivo e travolgente sia il dolore, non si perde conoscenza. Però può piangere, riesce a piangere, liberandosi dalla paralisi, dal rigor mortis che assale anche chi sopravvive. La sua guancia è irrorata di lacrime. Gandini le conta. Otto. Sono otto le gocce secrete dall’occhio di Maria, che finalmente può piangere, non come una dea assegnata a forze e destino sovrumani, ma come una donna. Sigillata nel silenzio, nella compunzione più austera, piange senza serrare le palpebre, come appesa alla gruccia delle braccia di Giovanni, le ginocchia flesse di chi si accascia tramortito. Il senso della vicinanza, la possibilità di immedesimazione con una figura divina come Maria, ci è donata proprio da questi dettagli, tra i quali, con lenticolare attenzione fiamminga, Gandini si concentra su quello delle lacrime. Ai particolari degli elementi per noi oggi più insignificanti perché privati del loro ruolo simbolico, i Fiamminghi dedicavano devozione nella resa. Maria è in lacrime, finalmente. Siamo avvezzi a vederla austera, quasi distaccata e lontana persino nelle presentazioni del bambino ai pastori e ai Magi, forse presaga del destino atroce cui si avvia. Di questo cedimento emotivo, benedetto, si accorge Roland Barthes che, nel suo celebre Frammenti di un discorso amoroso[5], scrive: “da quando gli uomini e le donne hanno smesso di piangere? Perché a un certo momento la ‘sensibilità’ è tornata ad essere ‘sensibileria’? (…) Stando a Michelet San Luigi si affliggeva per il fatto di non aver ricevuto il dono delle lacrime; una volta sentì le lacrime scendergli dolcemente, e esse gli parvero gustose e dolcissime, non solo al cuore ma anche alla bocca”.
Parlare di lacrime come un dono, significa che esse vengono
offerte e ricevute. Poiché una scienza che nasca improvvisamente, senza una lunga
gestazione prescientifica non è mai esistita, nonostante l’essere recente esito
dello sperimentalismo positivistico della Psicologia e poi della Psicanalisi,
si può individuare in questi autori tardomedievali e la cristallina chiarezza
dei dettagli più dimessi, i prodromi del Perturbante freudiano. Rendono,
infatti, domestico e intimo, vicino e quotidiano, ciò che si rivelerà essere lo
spaventoso, il pericoloso, il mostruoso che ci si figurava alieno, distante,
intruso. E che Maria, piangendo, accoglie.
Mitezza e forza sovrumana, ossimoro figurale, esistenziale.
Gandini ne cerca quasi lo spirito, e come gli antichi Maestri scandaglia i
dettagli, scopre le lacrime che, presi dalla sintassi compositiva e dalla
vibrante stesura dei colori, non avremmo scorto. Sette come i giorni della
settimana, come quelli della Creazione divina, che senza il sacrificio di suo
figlio, l’Emmanuel, avrebbero avuto come epilogo sola morte senza resurrezione.
Sette più una, il riscatto, la salvezza. Otto, il numero che, capovolto, è
segno matematico di infinito. Otto come le beatitudini nel discorso della
montagna[6].
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
L’artista le conta, le studia una ad una, ne rivisita i
contorni, le trasforma in corpi tridimensionali di vetro di Murano[7].
La sabbia passa dal fuoco, si fa da agglomerato grumoso materia rosso lavico,
poi raffredda indurendosi e trattenendo la forma acquisita durante
l’incandescenza. Il dolore brucia e forgia, brucia e conforma, ci cambia di
stato, sedimenta e si trasfigura in lezione, in insegnamento, in sollievo. La
lacrima, sofferenza e via d’uscita della sofferenza, sfugge alla logica binaria
della tassonomia logico-calcolante, del principio di non contraddizione. È ‘e’ non è, invece di è ‘o’ non è.
Gandini trasforma la
bidimensionalità del disegno in tridimensionalità della scultura. Inverte la
rotta che ha decretato l’abbrivio della nostra modernità[8],
la quale è nata sul presupposto esattamente contrario, recuperando l’opus del
geografo Tolomeo che nel II d.C. aveva ridotto il globo in fogli, in mappe.
Nella modernità, attraverso la prospettiva artificiale fiorentina, la
profondità dello spazio viene riportata sulla superficie delle immagini dipinte
e disegnate. Tutto è ridotto alla bidimensione che, totipotente, ne incorpora
una. Gandini se ne riappropria con Gustose dolcissime.
La restituisce allo spazio. Magnifica, rende grande cioè,
ogni lacrima, facendone leggerezza di luce e proiezione di ombra. Ne fa
monumenti, pietre preziose miliari che si frappongono alla camminata dritta
dello spettatore. Si fanno umile ostacolo, si fanno problema, parola che in
greco voleva dire oggetto, da pro-ballo, getto avanti. In questa nuova
dialettica tra bidimensione spogliata di maschera cromatica e tridimensione
piena, pesante eppure scintillante e morbida in tutta la sua vitrea chiarità,
lo sguardo rivisita lo schermo (Pulses) dove sul profilo di Maria a
intermittenza pulsano le lacrime attraverso il lume di una candela accesa che
l’artista faceva brillare sul retro dell’opera, forata in corrispondenza delle
gocce.
Gesto di sublime com-passione, quello Gandini che rivitalizza
un pianto lontanissimo rispettandone il silenzio. Maria è straziata, con il
riserbo dei grandi, dei capaci, di è capax di una quantità di dolore che
altri non potrebbero tollerare senza esserne squassati. Pensosa sempre, nelle
sacre Conversazioni, nelle Annunciazioni, nelle presentazioni del bambino ai re
Magi, e anche nelle Deposizioni. Maria è gravida, grave anche davanti alla
croce. Pesante (piena, madre di dio piena di grazia) e pensante hanno lo stesso
etimo. Ai piedi della croce patisce nuovamente il travaglio di dare alla luce
la divinità del figlio.
Concepisce Il figlio. Da concepire, che è anche pensare,
deriva concetto, e concepito. Il pensiero è sempre generativo. “Pensare”,
scrive Michel Serres nella Premessa al suo Il mancino zoppo[9],
“è inventare. (…) Pensare trova. Il pensatore è un troviero, un trovatore.
Imitare ripete, il suo riflesso ritorna. Scoprire non capita spesso. Il
pensiero, la rarità”.
E come ogni cosa rara, il pensiero di Maria inabissato nel
dolore, brilla e pulsa con la luce fioca e rispettosa di Gandini come un cuore
condiviso, nella luminosa via d’uscita pacificata dal più arduo dei compimenti,
gustosa, dolcissima via, di lacrime altrimenti salate.
[1] Armida Gandini, Gustose Dolcissime, gruppo scultoreo in vetro di Murano, 2018. [2] R. van der Weyden, Trittico dei Sette Sacramenti, 1445 – 50, Museo Reale di Belle arti, Anversa. [3] A. Gandini Pulses, opera vincitrice del Premio Paolo VI 2018. [4] R. van der Weyden, Trittico della Crocifissione, 1443 – 45, Kunsthistorisches Museum, Vienna [5] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 2014. [6] Matteo 5, Discorso della Montagna, Nuovo Testamento. Nella citazione, si parla di Jean Michelet, storico francese. [7] A. Gandini, Gustose dolcissime, 2018. [8] Su questi temi cfr. Franco Farinelli, Geografia e Crisi della ragione cartografica, entrambi Einaudi, Torino, 2008. [9] M. Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente. Bollati e Boringhieri, Torino, 2016.
Dal testo critico di Cristina Muccioli in occasione della mostra La persona che resta nell’ambito del festivalfilosofia 2019 di Modena-Sassuolo-Carpi presso la Galleria ArteSì, Modena
di Mariacristina Maccarinelli per la rivista Espoarte#105
L’arte di Armida Gandini nasce da
una riflessione profonda sul significato di identità. Inizia così una personale
ed intima ricerca del sé che poi si
dirama nel confronto e nel dialogo con l’esterno, verso altro da sé, verso chi è vicino e chi è lontano, assumendo un
valore di universalità intrinseca. L’artista bresciana, partendo
dall’esperienza del suo vissuto, indaga temi a lei cari e, attraverso il filtro
del suo sguardo, invita all’ascolto di racconti fiabeschi, accompagnando lo
spettatore nel suo mondo, nel tentativo delicato e sussurrato di conoscere e
capire il mistero della vita. Si potrebbe parlare di capitoli dedicati
al concetto di: identità come
viaggio nel proprio passato, nei ricordi, nelle immagini della memoria, senza alcuna nostalgia, col fine ultimo di
comprendere il presente nel profondo; presenza
come affermazione potente e simbolica del “singolo nel mondo” ma anche come “uomo
tra gli uomini” o al contrario come “non-presenza”; relazioni e legami che partecipano e segnano le vite di ognuno di
noi: affetti, amicizie, amori, abbandoni, lontananze, anche grazie alle quali
si manifesta l’unicità dell’individuo.
La sua poetica è caratterizzata
da una significativa capacità progettuale: la capacità di cogliere il sottile senso
delle cose, di svilupparlo attraverso il pensiero e la ricerca, per poi esplicitarlo
nelle sue opere spaziando oltre l’arte attraverso il cinema, la letteratura,
l’architettura (elementi che sono presenti e ben leggibili al fruitore).
Armida utilizza la fotografia, il collage e l’intaglio, in altri casi preferisce il video, l’installazione, la scultura, non di rado i suoi lavori sono l’unione di questi elementi. La curiosità, l’attenzione al particolare, l’amore per la conoscenza, la devozione alla sua arte fanno di Armida Gandini un’artista capace di coniugare l’immediatezza tipica della bellezza di una poesia al rigoroso approccio di una ricerca scientifica volta a svelare la vera essenza. Il suo percorso artistico testimonia la forza evocativa e comunicativa dell’arte contemporanea.
Testo di MariaCristina Maccarinelli per la rivista Espoarte, Trimestre N. 2 2019
Testo in catalogo di Annamaria Chiara Donini e Massimo Tura
Partiamo da un assunto intuitivo: ciò che qualifica
l’artisticità di una rappresentazione, nel registro figurativo come in quello
a-figurativo, è la capacità di ritornare al suo presupposto imprescindibile, di
soffermarsi sul tema della visione. Analizzarne le regole compositive, indagare
il rapporto che istituisce tra il pieno e il vuoto, percorrere con perseveranza
le tracce della sua operatività originaria: questi alcuni degli atti non
occasionali, ma essenziali, del gesto artistico. Ebbene, la volontà di eleggere
la visione a questione costitutiva della produzione artistica rappresenta – a
nostro avviso – il nucleo della ricerca di Armida Gandini, alla quale va
riconosciuto il merito, fra gli altri, di mostrarci alcune delle sue dinamiche
e, in particolare, di indagare la funzione del concetto che governa il faticoso
e sperimentale percorso di emersione della forma. Una questione che porta alla
memoria l’eredità del suo primissimo maestro, il torinese Beppe Devalle[1], che a
lungo ha indugiato sull’uso tettonico della tecnica del collage, sulla capacità di quest’ultima di mettere a tema la
costruzione della figura. La modalità di smontare l’immagine fino ad ottenerne
frammenti decontestualizzati e di ri-assemblarla in organismi nuovi e autonomi nasce
da una mirata analisi della struttura complessa della visione. Un lavoro che si
muove sull’interazione tra concetto e immagine, che cerca un’equidistanza tra
le categorie del pensiero e le strutture primitive dell’immaginario. Il
risultato è un uso intuitivo delle funzioni concettuali che tagliano, fondono e
allacciano in corrispondenza con le modalità relazionali di un’immaginazione diairetica, che associa secondo un
ordine geometrico, mistica, che
lavorando sulla viscosità degli elementi vi cerca possibili analogie e nuove
costellazioni, disseminatoria, che
muove dalle differenze in vista di ricomposizioni unificanti[2]. Un
processo che Armida Gandini investiga, inoltre, avendo ben chiara la funzione
del piano intersoggettivo. La costruzione dell’immagine, infatti, presuppone
che la nostra mira incontri e sia attraversata dalla mira di altri, che il nostro
sguardo incroci e si annodi con quello altrui. Vedere significa coordinare una
pluralità di visioni, vuol dire disporsi sull’intersezione speculare di più
riflessioni.
Se questo è quanto della visione, nella sua
vocazione generale, ci interpella, non possiamo dimenticare il ruolo centrale svolto
dalla luce. Se la produzione di immagini rappresenta il compito dell’arte, la
norma della luce è la condizione della sua costruzione e la premessa della sua
visibilità. Volendo coglierne la funzione nel lavoro di Armida Gandini, ci sia
concessa una breve digressione al fine di mostrare la duplice modalità del suo
rapporto con la forma. In un primo caso, il primato cade sulla luce. E’ questa
che educa l’immagine, che le dà quel corpo necessario alla sua visibilità. La
luce come condizione di manifestazione di una realtà che la rappresentazione
artistica deve limitarsi a riprodurre
fedelmente, senza interferenze, lasciandole la possibilità di irradiarsi.
Rispetto a questa prima modalità, possiamo individuarne una seconda che
rovescia i termini, assegnando priorità alla forma. In questo caso è la luce ad
essere condotta da una sapiente direttiva che la piega alla costruzione
formale. Alla concezione realistica
si contrappone così un uso concettuale
della luce. E’ questo il nostro caso nel quale l’artista piega la luce alle
esigenze della forma, in cui la orienta in una direzione funzionale
all’equilibrio formale. La lacerazione (Adora,
2016), il forame (Pulses, 2016), il
graticcio (Coordinate, 2016), che già delimitano la figura, che già ne
abbozzano il profilo, diventano le fessure da cui filtra quella luce che darà
visibilità e consistenza plastica all’immagine. La sorgente luminosa trova così
nella forma uno spazio di irradiazione, ma regolato, offrendole, a sua volta,
una sovraesposizione, un’apparizione trasfigurata.
Ma ritorniamo alla costruzione dell’immagine, a
quella che, a nostro modo di vedere, rappresenta la cifra di questo lavoro.
Un’immagine che, pertanto, non può essere riduttivamente intesa come un mero «cadavere del reale»[3], ma
positivamente come un ordine dinamico soggetto a ripetute rivisitazioni e a
costanti rinnovamenti, come «un esorcismo
contro la morte»[4] in continuità con il lascito devalliano. Lo si vede
nel lavoro La famiglia[5] in cui la
sovrapposizione dei volti incrocia idealmente sensibilità, visioni, mondi,
costituendo delle genealogie ideali. Lo si può ricavare in un’altra esperienza in progress come Coordinate che mostra come la costruzione dell’immagine, da un
lato, richieda il concorso attivo di chi la produce e di chi la fruisce, ma
dall’altro implichi uno iato incolmabile che ne impedisce il contatto e la
piena adeguazione. La griglia, infatti, se per un verso rappresenta una quinta
che spezza la continuità della forma, che negandone l’unità chiama lo
spettatore a uno sforzo di completamento, dall’altro delimita un non luogo e
genera una zona intermedia. Uno spazio inabitato in cui l’immagine s’arresta in
una sospensione pneumatica e la luce ricrea una corporeità fessurata, sezionata
dal cesello del bisturi. Lo si riconosce nel dialogo con la storia dell’arte,
in cui l’immagine, ereditata dal passato, è preceduta da altre e altre ne
invoca, delineando una durata ininterrotta raccolta in ogni singola opera. È
quanto si può osservare nella costellazione di immagini che, a partire dalla
lacerazione del picassiano Donna che
piange[6]
e dall’intenso compianto di Rogier Van der Weyden[7],
costituisce il filo conduttore della presente esposizione. Un dialogo libero e
creativo in cui le opere del passato offrono un repertorio di immagini
riutilizzabili. Si pensi alle Pagine
bagnate, in cui la figura umana, tolta dalla sua composizione iniziale e
sottoposta all’idea dell’artista, trova nuova vita in forma di lacrima. Interrogata
sulla sofferenza dell’umano, la storia dell’arte risponde con un campionario di
posture, movenze, espressioni a disposizione della pluralità di sagome e
profili in cui il fluire lacrimale si raccoglie. Vera antropometria del dolore,
la stilla inorganica interseca il cuore vivente dell’uomo, mostrandone una
reversibilità imprevedibile. Ma c’è dell’altro, perché il corpo-lacrima
ritagliato, estraniato dall’opera che contribuisce a definire come un tutto
compiuto, trova una nuova collocazione sulla pagina scritta, dimostrando di
cercare un’interazione con la parola. In tal modo il suo valore antropometrico,
limitato alla mera risistemazione descrittiva, si carica di un valore
antropografico, si estende all’ambito della scrittura, incontrando sia la
sintassi concettuale che le sonorità delle immagini, un «esercito di metafore»[8] che non
chiedono solo d’essere viste, ma che chiamano all’ascolto.
L’immagine come crocevia di visioni, si diceva
poc’anzi. Platone osserva come ognuno rifletta se stesso nell’occhio
dell’interlocutore; uno specchio nel quale lo spettatore si vede e si conosce[9], nel
quale coglie l’immagine nascosta del suo volto, l’espressione privilegiata
della sua identità sconosciuta. Qui lo specchio restituisce un profilo ignoto
di noi stessi e del mondo, ma da un punto di vista ideale; lo riflette, ma
dalla prospettiva privilegiata dell’osservatore.
Tuttavia se la funzione dell’occhio è assolta dalla
lacrima, quale goccia di luce in vibrazione, la capacità riflettente della
superficie speculare è mantenuta, nonostante l’effetto prodotto sia deformato: il
riflesso della stilla si presenta come un prodotto anamorfico. Lo specchio
convesso della lacrima, infatti, non garantisce più una prospettiva soggettiva alla
visione e scorre senza meta. Il piano riflettente, alterato da una superficie
difforme, perde levigatezza e regolarità, riconsegnandoci una realtà ab-errante.
La lacrima come secondo specchio, occhio dell’occhio di un mondo prima
invisibile. In questo passaggio la lacrima non si limita a moltiplicare i punti
di vista, ossia a generare una visione diffusa, ma mostra un’altra capacità. Se
a un primo approccio essa svolge una funzione espressiva, fluendo lungo i greti
del volto, ne scandisce le espressioni e ne rivela l’interiorità nascosta; se nella
sua trasparenza minerale «trascina fuori
la mia carne»[10]
esponendo agli altri tutta la mia vulnerabilità organica, ora la lacrima mostra
di poter riflettere anche una realtà esterna, di offrire a un mondo sconosciuto
l’opportunità di apparire. Emancipatesi così dal viso, le lacrime cadono fuori
dal quadro: specchi in disseminazione che portano a visione ciò che vive all’esterno
del ritratto e che può rinascere nel suo riflesso. L’originalità del processo
ricostruttivo sta nell’evasione dalla bidimensionalità, nella sortita in uno
spazio non controllato né dalle regole della prospettiva, né dalla logica del
sentimento; sta nell’attraversamento di un luogo caotico e casuale. Non più trattenute
dalla cute dolente della Vergine, tempio umano del divino, le lacrime cadono
dalla parete, si congedano dalla finzione prospettico-sentimentale e invadono
lo spazio volgare e prosaico del pavimento (Gustose
e dolcissime). Perduta la loro carica emotiva, non rinunciano alla capacità
di riflettere, di produrre figure, di costruire visioni. La lacrima diventa
metafora di una contemplazione diffusa, campo di forze da cui le immagini si propagano
in più direzioni a partire dalla sua natura chiasmatica. Chiasmo percettivo che
incrocia un dentro e un fuori, la lacrima è un essere della soglia che annoda
ambiguamente la trama del visibile con l’ordito dell’invisibile.
Se questa è la torsione impressa alla visione dallo specchio della lacrima, ente di confine che, nel lavoro di Armida Gandini, consente di seguire la sua capacità di smontare e rimontare figure, di costruire costellazioni di forme, il suo motivo (nel doppio significato di tema e di causa) è forse l’ineluttabile sofferenza. L’infinita riformulazione della forma incontra qui l’eterna presenza del dolore, con la stessa insistenza con cui la goccia d’acqua che cade in un bacile colmo (A stilla a stilla) lo alimenta senza tuttavia alterarne il bordo, senza produrne il travaso. Questa la ragione che impedisce alla lacrima di tradursi in un mero gioco della riflessione, in una camera ottica volta a stupire e intrattenere. L’incipit è ancora nella costruzione di van der Weyden in cui la lacrima esprime la sofferenza materna. Quella lacrima che dagli occhi della Madre rivela al mondo lo strazio inconsolabile della perdita filiale, al tempo stesso acquista la vita di una sofferenza redentiva; il dolore interiore che vi è espresso accoglie il gemito della creazione ferita in uno slancio di riscatto. Un’occorrenza quest’ultima, che neppure la scomparsa del sacro può cancellare, che nemmeno il disincantamento del mondo può trascurare. La fragilità di un’anima messa a nudo, come nel caso di Dora Maar (amante infelice di Picasso), la rinuncia dimessa di sé a favore dell’altro, la consegna senza condizioni al suo arbitrio, offrono ancora, e forse ancor di più di fronte alla vulnerabilità dell’umano, una possibile redenzione. Come sapore di un amore violato, come voce di una promessa non mantenuta, odore di una violenza gratuita; come segno di un’affezione incontenibile, la lacrima è il prisma che scompone in una molteplicità di forme l’unità indistinta del dolore. Ma, al tempo stesso, in quanto simbolo dell’acqua, archetipo della purezza, essa continua a parlarci di un gesto catartico, di un lavacro che offre allo spazio profano del mondo e della vita la condizione di quella sempre possibile rigenerazione a cui l’arte non può cessare di tendere.
[1] Per un primo approccio con l’opera dell’artista torinese si rimanda al catalogo della mostra Devalle 1940-2013 (M.A.R.T., Rovereto, 16 ottobre 2015-14 febbraio 2016), Electa, Milano, 2015 [2] G. Durand, Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Bordas, Paris 1963, p. 482; tr. it. Le strutture dell’immaginario, Dedalo, Bari 1972, p. 421. [3] R. Barthes, La chambre claire. Note sur la photographie, Gallimard, Paris 1980; tr. it. La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, p. 16.[4] M.M. Lamberti, Dedica per Beppe Devalle 1966-1982, in Devalle (1940-2013), MART, 16 ottobre 2015 – 14 febbraio 2016, Electa, Milano 2015, p. 33.[5] Opere esposte nella personale Armida Gandini, Stranissimo e sempre più stranissimo allestita presso Galleria Azimut, Brescia, 2017[6]Donna che piange, 1927, olio su tela, cm 55 x 46, Melbourne, National Gallery. La tela di Pablo Picasso è il punto di partenza per la “rivelazione costruttiva” protagonista del video di Armida Gandini Adora del 2016.[7] L’opera Pulses trova il suo incipit nella contemplazione della tavola quattrocentesca I sette sacramenti (Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten)del pittore fiammingo Rogier van der Weyden. [8] F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, vol. III, t. II, Adelphi, Milano 1973, p. 368.[9] Platone, Alcibiade I, 133a.[10] M. Merleau-Ponty, L’oeil et l’esprit, Gallimard, Paris 1964; tr. it. L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989, p. 27.
Testo in catalogo di Annamaria Chiara Donini e Massimo Tura in occasione della mostra Gustose e dolcissime, Palazzo Bertazzoli, Bagnolo Mella (Bs)
Il
filosofo Bernard Williams scrive giustamente una verità alquanto irrefutabile:
<<qualcosa c’è in ogni caso>>. È questo avvicinarsi al significato
dell’esistenza che porta Armida Gandini (Brescia, 1968) a costruire l’immagine,
qualunque essa sia, ai fini di una scoperta, non solo personale; per lo più
condivisa con l’osservatore, che, da esterno all’opera, ne diventa così parte integrante.
Lo
scambio tra l’artista e il suo pubblico innesca una relazione affettuosa,
intima. Un viaggio nella conoscenza delle paure che possono fare emergere i
ricordi, ma soprattutto la verità di quelle memorie. Esse affiorano. Si
“rendono fiori”. Fioriscono. Si tratta di un processo di crescita,
un’educazione all’insegnamento della trama del ricordo. Ma Armida Gandini,
nonostante le numerose provocazioni, ci tiene a sottolineare che non si tratta
di una memoria nostalgica, quella intorno alla quale si costruiscono le sue
opere, piuttosto essa si identifica in un bisogno irriverente e impetuoso, che serve per invecchiare,
necessario ad un nuovo corso, accessorio alle palpebre, per schiudersi alla
luce di ogni nuova mattinata. Il suo ritorno all’infanzia, quindi, si determina
da sé come la base imprescindibile per l’età adulta, costruita nell’enfasi del
gioco e razionalizzata con il tempo.
La
struttura di produzione dei soggetti nelle costruzioni tecniche e sentimentali
di Armida, però, non si deve associare ad un moto circolare, quello dell’eterno
ritorno nietzschiano, ma è chiaramente un riferimento ad un contorno, un humus
produttivo di fondo, che accompagna la crescita continua, certamente, ma
irregolare.
Le
opere di quest’artista vanno vissute; ci si rivolge ad esse con
quell’attenzione di chi ascolta il dirimpettaio, perché è certo che abbia
ancora qualcosa da dire dopo il saluto di convenzione. Armida è ontologica
perché rimanere sulla superficie, per lei, non può e non deve bastare; ma è la
scoperta il senso profondo della conoscenza reale.
Del resto, come può essere sufficiente trattenersi in superficie? Si può conoscere qualcuno esclusivamente dalla sua pelle? Chiaramente, no. Il vissuto è esperienza. La conoscenza, che si risolve nell’azione e nel tempo, trovando il suo più profondo senso dell’essere nella curiosità e nel moto, è la chiave di lettura dell’artista bresciana e delle sue opere.
I
lavori di Armida Gandini, per quanto dedicati alla memoria, infatti, lasciano
vivere nel presente, permettono di assaporare il tempo senza esserne logorati
e, soltanto attraverso uno sguardo attivo e di prospettiva più ampia, si fa
largo la scoperta. Essa quanto più trova le sue radici nel passato, tanto più
instaura una relazione solida con l’istante e con il mondo, con il sé nel
presente, rivolto però al futuro. In questo contesto fecondo, la malinconia e
la retorica lasciano lo spazio alla narrazione, più precisamente alle modalità
di narrativa e alle capacità di collocamento dell’estetica, avvertita come
mezzo per lo sviluppo della propria storia personale. Non manca così, ad ogni
modo, la crescita storica.
La
nostalgia del resto è conservatrice, mentre tra le opere di Armida Gandini si
scorge un punto di svolta: esso sta proprio nel titolo della mostra, connotata
appunto come antologica-ontologica.
A più
piani coinvolge il potere della ripetizione, l’effetto dell’istante e le regole
della condivisione di molteplici piani esistenziali, i quali restituiscono al
mondo l’uomo come sistema complesso, capace di affrontare tempi e spazi
multipli. È un messaggio positivo, di speranza naturale, dettata da quel senso
di progresso, che contraddistingue, come suggerirebbe Hans Jonas,
l’”homo faber” (colui che produce, quindi è in-atto) dal più essenziale “homo
sapiens” (colui che conosce, ma ancora è in-potenza).
Narrativa anche come tensione, come dinamica umana, esclusività della parabola progressista. In questa prospettiva, non è possibile riconoscere un merito maggiore o minore ai diversi progetti; difatti, Armida Gandini esprime un significato di proiezione pratica in ogni sua opera. Si prenda la serie Il bosco delle fiabe (2000). Qui l’eternità del lavoro si riconosce nell’assenza di un panorama, di uno sfondo contestualizzante. Quando l’assenza di coordinate, ormai per l’uomo fondanti, vengono a mancare, come accadeva per le Madonne con il Bambino duecentesche, stagliate sull’oro zecchino ad indicare l’eternità di Maria; il bianco, che predomina in questo caso, paradossalmente è facile che sparisca dalla percezione dell’osservatore, il quale così potrà finalmente concentrarsi sull’enfasi simbolica dell’immagine singola e creare un rapporto empatico con l’opera. L’arte contemporanea, almeno quella dotta, riconosce l’urgenza di sentimenti ed emozioni in una società ingannata dall’apatia e dalla massa e ne ripropone versioni personali, interpretandosi come mezzo di contatto, senza vergogna alcuna.
A
questo proposito, viene in aiuto una conversazione avvenuta tra Armida e me.
F:
<<Questo legame con i personaggi di fiabe conosciute, fa sì che tu abbia
un forte senso della narrativa. Di qui il concetto di stratificazione. Di qui,
l’identità costruita
o decostruita nel tempo? In alcune serie, quelle dove l’identità è supportata
da un processo di liberazione, ad esempio in Casing, mi pare ci sia una scoperta lenta e paziente, più naturale
se vogliamo, come quando si sbuccia con cura una mela, dove l’apparizione
dell’immagine è decontrazione corporale. Mi sembra che i sensi umani, per te,
si distacchino in qualche modo dalla morale del soggetto. Quando scrivi, sempre
per Casing: ”Ciò che mi interessa è
una sperimentazione sulla forma stratificata della griglia che supplisce alla
rarefazione del corpo […]”, ciò che mi colpisce è proprio il bisogno che
hai, come se fosse uno stato d’emergenza, di stratificare il corpo, come si
percepiva l’umano nell’epoca classica: dall’esterno (fenomeno) all’interno
(anima) […]>>.
A:
<< La narrativa, ma anche il cinema, è un modo di vivere tante vite, di
fare molti incontri. Chi diceva, forse Eco, che “chi non legge vive una vita
sola…“. Ma per me è anche una sorta di dialogo con personaggi/persone, che mi
insegnano ad interpretare i sentimenti. Per questo spesso i miei lavori hanno
una matrice letteraria, nascono in dialogo e confronto con alcuni autori/autrici,
da qui il lavoro dei ‘Padri e delle Madri’, fondato sul concetto di eredità culturale, di affinità del sentire. Se è vero che la
costruzione dell’identità si
definisce nei primi anni di vita (io appassionata di psicoanalisi e pedagogia
montessoriana credo in queste indicazioni), è vero anche che gli orizzonti si
allargano e ridefiniscono il nostro stare al mondo in base alle esperienze che
facciamo nella vita; ancora una volta, insisto su questo punto, in base agli
incontri; quando per incontri io intendo quelli reali, ma anche immaginari,
culturali, artistici. Perché dietro
un libro c’è sempre un uomo (dico uomo nel senso di umanità), una persona con
tutte quelle che sono le sue emozioni, bisogni, reazioni, vissuti ecc… e
alcuni incontri ti aprono alla vita, altri rappresentano il rischio di una
chiusura. Nella mostra di Amsterdam, Standing
up, mi sono interrogata sulle questioni dello stare al mondo, di come
rimanere in piedi nonostante (e nel nonostante ognuno ci metta quello che
vuole). Io credo che sia necessaria una struttura che io personalmente,
corpo e pensiero fluido, non possiedo “naturalmente”. Un mio sogno
ricorrente della giovinezza consisteva nel vedermi come un essere senza
struttura ossea, una pelle priva di sostentamento […]>>.
Riflettendo
su queste parole, emergono alcuni concetti fondamentali, dai quali scaturiscono
alcuni dei lavori presenti in mostra. Con Armida Gandini, infatti, il pubblico
si può innalzare ai concetti di libertà, di esplosione, relazionandoli con gli
impulsi naturali e/o artificiali delle persone a servizio della costruzione di
una società. In questo senso, le sue semisfere Campane di vetro, Rane in
pancia, Noli me tangere, per
esempio, appartengono al logorio claustrofobico che quest’era dell’iperrealtà ci
impone, talvolta tralasciando la memoria, come rifugio sicuro, dove poter essere sé-assente di giudizio.
La
società occidentale è convinta di liberarsi e di distrarsi, posizionandosi per
ore di fronte ai computer, ai tablet, camminando a testa bassa appannando con
il respiro gli smartphone. Eppure, al contrario, questo comportamento
imprigiona gli individui, che così, perdono di vista il rapporto veritiero con
la Natura, con la Città. Armida,
con tale processo creativo, libera se stessa e gli osservatori, provocandoli
alla riflessione, con opere di grande o piccolissima portata fisica, ma sempre
dall’estetica evanescente, pulita, sintetica, avvicinandosi, chissà se per
volontà o no, anche alle filosofie orientali dello Zen e dell’arredamento Feng
Shui, dove l’assenza interpreta, inversamente alla consuetudine contemporanea,
il luogo in spazio. Nelle
opere di Armida Gandini, si ritrova con piacere una costruzione armonica di
strutture nuove, frutto di una sedimentazione temporale, che non segue la
volontà umana, perché, quel tempo, ne ha
una tutta sua e ben più definita, rispettata ad ogni tratto di matita, ad ogni
scena, ad ogni parola evocata. La
lettura dei lavori di quest’artista, porta con sé la paura di scoprire, in qualche
modo, la rarefazione, la vulnerabilità, la fragilità e la precarietà dell’umano contemporaneo. Nei progetti
come Vie di fuga (2016), ad esempio,
Armida ha l’obiettivo di renderci il pubblico consapevole, di comunicarci una
possibile perdita: del sé, della comunità. Per tale motivo che l’intera
produzione, per essere compresa, è meglio leggerla al contrario:
direttamente dall’interno. Le immagini, in questa prospettiva, diventano
emergenti, libere, appena affacciate sul mondo: non immagini ingabbiate, dietro
reti metalliche o sbarre (come del resto si rischia di interpretare l’opera se
letta appunto dall’esterno verso l’interno).
Qualcosa succede, dunque, i personaggi agiscono, anche se la loro azione è più mentale che fisica, sono statici solo in apparenza, in realtà si fanno avanti, talvolta si animano prendendo colore. Arte e benessere, libertà e verità: sono queste le proporzioni della vita di Armida Gandini e, in questo senso, i suoi lavori emergono come terapia per una crescita nel dolore, causato dal distacco dall’età fanciullesca. E, per quanto si continui ad utilizzare le favole come medium, esse rimangono capisaldi tanto nel bambino quanto nell’adulto.
Fin dall’inizio, si è detto come lo sguardo ricorrente e interrogatore della memoria dell’artista sia stato fondamentale per scoprire la sua materia, i suoi rifugi, le sue esperienze. Per tale motivo, è nata la necessità di vedere un’identità-in-costruzione – di Armida, di tutti – dove poter passare dalla mera indagine alla costruzione di una “protezione” di un corpo che è stato una difesa per quel che sarà. Il dubbio resta nella rarefazione dell’individuo dietro questi strati. Ma sono solo tutti veli di Maya, da squarciare con forza e darsi al visibile. La realtà rimane, quindi, un contenitore troppo caotico per aggiungere atti sospesi, lasciamo che tutto venga esperito con un continuo ragionare d’emozione, nella completezza dell’essere una persona.
Testo di Federica Flore in occasione della mostra A più piani presso Archimania, Sanremo, 2017
È fondamentale per un artista portare la vita nelle sue opere. È una specie di atto dovuto: a ben pensare l’opera è estensione dell’artista e, come tale, essa deve poter “vivere”. La vita non è quasi mai letta come una linea retta ma piuttosto costellata di sobbalzi, declivi e ostacoli che mettono l’uomo sempre alla prova, sin dalla nascita. Armida Gandini (Brescia, 1968) riflette sui dualismi arte-vita, effimero-concreto, mentale-sensoriale. Nella mostra alla 41 artecontemporanea di Torino, la sua eroina è una bambina che, in uno spazio bianco, sospeso e asettico, deve confrontarsi con barriere fisicamente presenti ma in verità disegnate dall’artista (quindi anche illusorie). Succede in un video e succede sulla carta dove -in quest’ultimo caso- alla figura umana fotografata (riportata con la tecnica del ricalco a trielina) risultano aggiunti, disegnati a grafite, reticoli, corpi geometrici e bande nere, in un’alternanza di trasparenze e saturazioni. La situazione viene riproposta anche nell’allestimento della mostra: c’è un muro bianco (un foro sulla sua superficie premette di guardare oltre) che tuttavia non raggiunge il soffitto; ci sono una scala di metallo, uno sgabello, una sedia: elementi che si trovavano nelle opere cartacee e nel video, ma che nella galleria sono monchi, incompleti, parte di un’intenzione suggeritrice più che descrittrice. Chi osserva viene infatti attratto dal desiderio di scoprire, “completare” le immagini, avvicinandosi e interagendo, sporgendosi e modificando il punto di vista. Oltre il muro un altro spazio –al quale si accede non senza dover cercare il passaggio- in cui fotografie (che appaiono come flashback del video; il video potrebbe essere conseguenza dei disegni) appese alle pareti completano l’allestimento. Il concetto di ostacolo tutt’altro che insormontabile è sottolineato già a partire dal titolo della mostra (“Io dico che ci posso provare”) ma, soprattutto, dall’uso dell’acerba fanciulla, più disposta rispetto all’adulto a fantasticare in un mondo da Alice (non a caso personaggio già protagonista di un passato lavoro), che nasce quindi spesso dalla propria fantasia, e forse è proprio la sensazione che colpisce di più davanti a questo grande racconto: è un mondo possibile ma illusorio, come quello che solo i bambini concepiscono.
Nelle opere di Armida Gandini convivono le espressioni artistiche più classiche insieme a quelle più recenti, dal disegno alla performance, dalla videoarte all’installazione. Il suo poliedrico registro tecnico concorre alla costruzione di un mondo ricco di sfaccettature. La sua tecnica è molto raffinata, caratterizzata da quella stessa cura del metodo e del dettaglio che da sempre sta alla base della bella realizzazione artistica: la sedimentazione della pittura attraverso le velature e la differenziazione dell’impasto, l’alternanza dei materiali e il loro dosaggio, sono trasfigurati nelle sue opere stratificando la grafite sulla carta, accostandola a interventi fotografici o fotocopiati, alternando il video all’allestimento di spazi multisensoriali a loro volta costituiti da un’attenta messa in scena. E parlando con Armida ci si accorge che davvero le sue opere sono estensione di se stessa, delicate e trasognate, palinsesti di sottili fogli emotivi riccamente contrastanti, proprio come nelle fiabe.
Testo di Sabatino Cersosimo perArtKey Magazine in occasione della mostra Io dico che ci posso provare, 41artecontemporanea, Torino, 2009
(…) Nelle ultime opere esposte presso la galleria Studio 34 di Salerno, Armida Gandini costruisce, all’interno di un profondo box in legno, tre livelli di elaborazione costituiti da fogli di acetato e di carta che si sovrappongono non a caso, ma seguendo il tempo misterioso del coagularsi della memoria involontaria e del ricordo. Il livello più profondo, fotografato e stampato, oppure disegnato, scansito e stampato, rappresenta spesso un bosco, immagine fuori fuoco della propria memoria; nel foglio successivo appare la propria infanzia, mentre in superficie l’epifania paradigmatica della fiaba si visualizza attraverso delle frasi tratte da alcuni tra i più noti racconti.
Sono opere, queste, che
raggiungono la qualità rara della leggerezza pensosa: immagini lentamente
acquisite, la cui costruzione si fonda sul duplice assunto dell’evanescenza e
del silenzio. Un alone indistinto ci rende da subito consapevoli della mancanza
di ogni certezza di senso. Sono immagini, quelle di Armida, tanto più ambigue e
sfuggenti, quanto più appaiono colme di innocenza e soavità.
La compresenza di testo e
immagini, inoltre, ci illude solo fuggevolmente che l’artista voglia fornirci
uno strumento di comprensione: le parole della fiaba, con subdola
consapevolezza, prima ci introducono nel senso dell’immagine, illudendoci
dell’esistenza di codici, di una semiotica condivisa, per poi svelarsi quasi da
subito inadeguate o incongrue. Parole e immagini, infatti, paiono non
collimare; le frasi sembrano spostare beffardamente il fuoco del loro
obiettivo, illustrandoci il meccanismo di una costruzione certo non estranea a
una lucida, inquietante ironia. Tali frasi, tuttavia, sono indispensabili nel
far sì che la stratificazione assolutamente personale della memoria umbratile
si universalizzi, coralizzando il messaggio.
Sovrapposizioni di costruzioni oniriche, persone, cose, luoghi, suggestioni, non addensano lo spazio, ma tendono a svaporare; le immagini dell’esperienza individuale, di fotografico iperrealismo, si proiettano e si intrecciano a quelle della memoria inconscia collettiva, all’elemento ancestrale (rappresentato, di volta in volta, dalla bestialità animale, dalla natura panica, dalla storia sepolta, di scavo), evocato al contrario in maniera nebulosa o attraverso pochi tratti volutamente naif. È su questo sfondo che l’infanzia dell’artista proietta la propria ombra, a voler misurare lo spazio, ma anche a visualizzare il percorso “a rebour” verso quell’indistinto magmatico.
Sembra, a volte, che Armida voglia costruire veri spazi metafisici, non più addensando materia pittorica in uno spazio infine saturo e claustrofobico, ma contrapponendo sapientemente immagini traspiranti, lievitazione progressiva e profondità prospettica tradizionale, cose concrete e segni che, come i pensieri, paiono attimalmente segnati sull’acqua che scorre.
Alla suggestione metafisica
ci sia permesso di accostare quella di Magritte, per il gusto delle
associazioni incongrue, per una rappresentazione della realtà sempre pronta a
svelare il suo doppio.
Quello che ci conforta più
di ogni altra cosa, tuttavia, è la costante vibrazione poetica, quasi un tono,
costante e ispirato, di elegia. Occorre ribadirlo, l’unica lettura possibile di
queste opere è quella che lascia nella mente un senso di inafferato, il
rimpianto di non aver compreso, la sensazione di un’illuminazione di poesia e
di verità troppo poco a lungo vissuta davanti ai nostri occhi. È come nel primo
attimo del risveglio, quando, non afferrato ancora l’abito del nostro io
quotidiano, “più spogli dell’uomo della caverna”, percepiamo soltanto il dolore
sottile di non essere più capaci di afferrare ciò che un istante prima, nel
sogno, avevamo così chiaramente percepito.
A rimanere è la consapevolezza che, forse, per dirla con Proust, “l’immobilità delle cose intorno a noi è loro imposta dalla nostra certezza che sono esse e non altre, dall’immobilità del nostro pensiero di fronte a loro”.
Molti avranno posto attenzione al fatto che, come nella sua opera, così nel suo nome Armida sembra evocare la favola e il sogno, mitologie di terre sante, funambolici percorsi ariosteschi: anche qui la fiaba, in virtù della forza universale dell’arte, trascende le dicotomie realtà-sogno, fantasia-possibilità. E anche qui l’arte è capace di ricondurre il proprio passato non soltanto al sé, ma anche agli altri, poiché nell’arte la narrazione dell’io non diviene mai soliloquio autoreferenziale, esercizio terapeutico dell’inconscio, ma, al contrario, indizio di una intuizione di senso naturalmente condivisa. Con la favola, è bene dirlo, qui torna il rimosso della nostra coscienza e della nostra innocenza, ma pure lo stimolo a guardare il profilo inconsueto delle cose, la speranza della rigenerazione nel fantastico. Speranza che, in definitiva, riscatta il disagio contemporaneo per la perdita di ogni rassicurante certezza gnoseologica.
Giuseppe Rago, La fiaba soave della memoria, testo critico tratto da Casa Mia Decor, settembre 2002 in occasione della mostra presso Galleria Studio 34, Salerno
Con il progetto installativo Rane in pancia, appositamente studiato per la galleria di Fabio Paris in concomitanza con la partecipazione dell’artista alla Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia 2006, Armida Gandini prosegue nell’accurata ricognizione di quel paesaggio dissestato e irregolare che è l’emotività umana, quando questa si predispone nell’atteggiamento particolarissimo di voler raccogliere tutti gli spunti e le sollecitazioni meno ovvie e meno certe provenienti dalla realtà circostante, dal mondo fuori dai suoi soggetti. In un panorama – quello dell’arte contemporanea di ultima generazione – che sovente sceglie la linea aspra e roboante della provocazione e dell’aggressione, del gigantismo e del fuori misura, è prezioso lo sguardo dell’artista bresciana lanciato obliquamente sulle cose del mondo, sulle mancanze e sulle fragilità psichiche che condizionano l’esistenza umana nelle società globalizzate e omologate dell’oggi. Armida Gandini, con la delicatezza e la grazia che ne contraddistinguono tanto il lavoro quanto la persona, ha sempre preferito, attraverso il linguaggio della fotografia arricchita da interventi disegnati, immaginare anziché descrivere la realtà, inabissarsi anziché galleggiare sul pelo dell’acqua, contraddire con ironia i luoghi comuni e gli schemi fissi anziché assecondarli. Non è un caso quindi che l’artista abbia eletto a campo di indagine, proprio quelle fasi della vita – l’infanzia o l’adolescenza – maggiormente implicate nei processi di sconvolgimento e riassetto delle emozioni. Metafora di una condizione che prescinde l’aspetto biografico delle singole vite, l’età infantile o post-puberale è divenuta, soprattutto negli ultimi anni, oggetto di attenzione e di studio per quanti ritengono che questo universo parallelo, fluido e in divenire raccolga in sé le potenzialità magnifiche del cambiamento e il pericolo costante delle incertezze e del disequilibrio. L’adolescenza non è infatti solo un momento di passaggio della vita umana, è anche uno stato mentale, una condizione che si riflette prepotentemente su lifestyle e tendenze.
Gli adolescenti sono consumatori onnivori, instancabili, distratti e attenti ma, allo stesso tempo, sono creature fragili, fragilissime, specchi in cui si riflettono le numerose incongruenze e aporie del mondo adulto. Armida Gandini sposta l’attenzione dal piano della semplice registrazione delle abitudini, dei gusti, del way of life delle giovanissime al substrato percettivo ed emotivo delle adolescenti, componendo un ritratto ben più sottile e meno consolatorio. Se le precedenti immagini erano popolate di bambine intente a rivendicare uno spazio autonomo e indipendente in un universo adulto e indifferente, in questa nuova serie fotografica dedicata all’età adolescente, vengono a galla tutte le contraddizioni, le impotenze, i desideri e i conflitti di una generazione costretta dalle contingenze a districarsi nella realtà come un equilibrista o un funambolo. Affiora in questi lavori una trama fitta e perturbante di paure e di domande a cui l’artista da visibilità e legittimità, ma non risposte.
La delicatezza con la quale il punto di vista si sviluppa e realizza delle forme creative non è figlia di un disincanto cinico, proprio di chi possiede una verità; è piuttosto l’emanazione diretta di quella ritrosia che si ha quando la partecipazione emotiva verso le questioni dibattute è ancora viva e scottante. Il tradimento dei desideri, la perdita di ancoraggi fissi, la confusione fra ideali da realizzare e obiettivi effettivamente perseguibili, l’implosione delle emozioni, la ricerca di orizzonti lontani, il tumulto emotivo e l’urgenza di sottomettere la ragione alla dura legge della passione, sono voci di un dizionario dei perché esistenziali ben più ampio e variegato che l’immaginario di Armida ha esplorato ripetutamente nel tempo.
L’installazione ambientale Rane in pancia affronta dopo le grandi questioni della definizione del Tempo e del Caso, quello della Rigenerazione. Il concetto di un tempo fluido e dinamico che rifugge la stagnazione in vista di una trasformazione e di una palingenesi attiene perfettamente alle idee di transitorietà e mutevolezza associate all’età dell’adolescenza, quando le possibilità si moltiplicano e la fisionomia dei pensieri e dei desideri muta con la stessa velocità del corpo. Una fanciulla, incredula di ciò che sta accadendo dentro di lei, rivolge lo sguardo verso se stessa, verso il centro del suo corpo (la pancia) dove sono stati praticati tramite elaborazione grafica dell’immagine, dei vuoti corrispondenti a piccoli girini. Le creature animali non ancora formate, non ancora adulte, diverranno successivamente rane, per diffondersi nello spazio della galleria in modo anarchico e libero sottoforma di figurine tridimensionali realizzate con la carta. All’immagine fabulosa e mitica di un corpo mutante e metamorfico, si aggiungono adesso la paura della scoperta e l’incertezza del cambiamento, momenti che preludono la completezza e la piena coscienza dell’identità.
L’installazione sottende un pensiero complesso e articolato – ricorrente nei lavori dell’artista – sulla genesi del mondo e degli esseri, colti sempre nella stagione della muta, nella condizione del passaggio, nell’atto di ridefinire confini e modalità dei comportamenti. Armida però, come si diceva all’inizio, è incline a cogliere il portato emotivo di questa trasformazione, tutte le più piccole oscillazioni dell’anima dei suoi protagonisti, i delicati e inquietanti sconcerti che la psiche affronta quando il mondo dentro o fuori di lei si modifica. Le semisfere trasparenti, simili a bolle o uova che presto si dischiuderanno, lasciano intravedere sul fondo altre immagini di giovani ragazze alla ricerca di un equilibrio e di una posizione eretta che non si raggiunge mai. Forse, quei disegni a china impressi sulle calotte delle semisfere raffiguranti reti, gomitoli, creature animali, minacciano la libertà di movimento e di azione della fanciulle. Forse sono limiti da valicare prima di librarsi ragionevolmente in volo. A volte sono ostacoli che noi stessi interponiamo fra noi e il mondo, a volte parole e pensieri che si dissolvono come bolle di sapone nell’aria.
Nel frattempo si sta, come queste figure, sospesi, in attesa, in pericolo, in movimento, cercando di fare o di riempire il vuoto, fuori e dentro, per ripartire con slancio.
Gabriella Serusi, Rane in pancia, testo critico in occasione della mostra presso Fabio Paris Artgallery, Brescia, 2006
Raccontare bugie significa solitamente volersi nascondere da qualcosa o da qualcuno, cercare
di preservare la propria incolumità negando spesso un’evidenza scontata, una
verità che, per gioco o no, non si vuole accettare come tale. Quante volte mi è
capitato di rifiutare uno scontro o semplicemente di dare una spiegazione
volendo in quel momento poter scomparire recitando la piccola ricetta magica
“non ci sono più” e… puff! Svanire nel nulla. Troppo facile. Eppure anche
quando non si è più bambini lo si vorrebbe fare, così sarebbe tutto più
semplicemente aggirabile.
GLI ASINI NON VOLANO
Uno scroscio d’acqua si riversa sulla testa di Andrea, ma lui
imperterrito è pronto a dire “non mi bagno”; Valentina si nasconde dietro
un’ingombrante sedia bisbigliando la frase “non ci sono”; Vezio si sottrae con la sua giacchetta blu all’incontro con un
gruppo di uccelli pensando “non siete miei amici”. Sono bambini che desiderano
comunicare più che un messaggio una decisione, una presa di posizione quelli
che Armida Gandini rende protagonisti dei suoi lavori. Sempre presenti come
personaggi principali, non sono simpatici pargoletti che possano intenerire un
pubblico facile al sentimentalismo e alla nostalgia per l’infanzia. Sono
piccoli protagonisti che hanno già sviluppato un proprio modo di pensare e di
porsi di fronte al mondo, pronti a far vedere chi sono, a voler avere la
possibilità di decidere. Infatti Gandini sceglie di rappresentare un’età,
quella pre – adolescenziale, intesa come momento di crescita, di passaggio,
in cui la persona comincia a sviluppare la propria individualità e a capire
cosa significano indipendenza e autonomia. Per questo la maggior parte delle
volte ci troviamo di fronte a personaggi soli, calati in contesti che, se in un
primo tempo erano il bosco delle fiabe o il labirinto, simboli delle difficoltà
che si incontrano nella vita e della scelta, ora sono luoghi vuoti, privi di
una reale connotazione, dove la matita nera dell’artista disegna ambienti
irreali, direi surreali. Sfondi metaforici che evocano lo strato più profondo,
il pensiero, l’immaginario, realizzati con una calligrafia spoglia, ma nello stesso tempo raffinata,
lineare, ma contemporaneamente spiazzante, lontana dalle formule più frequenti
del disegno contemporaneo. Sono i luoghi mentali che dialogano con le azioni
dei protagonisti, sottolineando che si tratta più di movimenti emotivi che
fisici, perché tutto avviene nella loro testa o nella loro pancia.
Ma a chi appartengono le fotografie imprigionate nei box di Armida? Chi sono realmente questi bambini? “Le immagini sono tratte sfogliando gli album di famiglia (a partire da quelli personali), un modo di rendere pubblico il privato allargandolo. Fotografie che erano destinate alla sola visione familiare così diventano immagini di una memoria collettiva, come se si aprissero delle porte su dei mondi interiori” spiega l’artista. Sfogliando gli album Armida si è resa conto di quanto in fondo gli scatti si assomigliano, perché esistono degli episodi, delle azioni, dei gesti comuni che appartengono a tutti e che vengono immortalate dalla macchina fotografica nel corso degli anni. Sono le esperienze che attraversiamo nella vita e che incidono sulla definizione della nostra identità; sono gli incontri, le relazioni che abbiamo instaurato, le situazioni che ci hanno commosso. Ma queste immagini private, che rappresentano il vissuto soggettivo, vengono trasferite in una dimensione più generale mediante l’ulteriore sovrapposizione di un breve frammento di testo, che svincola la memoria da una stretta autobiografia, da un quotidiano ordinario e indifferenziato.
Nei lavori precedenti, come nella serie I luoghi della memoria le parole sovrimpresse erano estrapolate da fiabe e all’interno dell’opera campeggiavano frasi quali Cappuccetto Rosso e il lupo, Pinocchio prima di incontrare Lucignolo, Alice nel labirinto. Stralci che così riportati divenivano enigmatici, non fornendoci una chiave interpretativa del lavoro, ma solo uno spunto di riflessione. Nei lavori più recenti i brevi periodi declinati rigorosamente al presente non cambiano nella forma, ma assumono un tono imperativo, di negazione, di non accettazione: Non gioco più, Non sono una Signora, Non ci casco. Sono espressioni di dissenso legate alla situazione evocata nell’opera, i personaggi si ribellano a ciò che è convenzione, che spesso diviene sinonimo di conformismo, di ovvietà. Un negarsi qui rappresentato nella maniera goffa e giocosa dei gesti tipici dei bambini, ma che va ben oltre nella riflessione di Gandini, perché quello che i protagonisti difendono è il loro spazio, il loro pensiero. Negano qualcosa per affermare se stessi. E l’unica maniera per tutelarsi è quella di inventarsi delle gabbie, delle scatole rassicuranti, ma anche auto ingannevoli. E’ quella di bendarsi gli occhi e tapparsi le orecchie, ostinarsi a non sentire e non vedere, arrivando a negare l’evidenza.
Non sappiamo se Valentina e Vezio riusciranno a non spaccarsi la
testa sbattendo contro i muri della vita. Andrea si è già bagnato.
Valentina Costa, Gli asini non volano, testo critico in catalogo in occasione della mostra presso Fabio Paris artgallery, 2003
When we tell lies we usually want to hide ourselves from something or
someone, or we are trying to keep us safe by often denying a foregone evidence,
a truth that – for fun or not – we do not want to accept as it is. How many
times has it happened to me to refuse a confrontation or simply to give an
explanation while I desired I could disappear acting my little spell “here no more” and … puff! To melt away. Too easy. But even when we are no longer children we
wish we could, so that everything would be easily bypassed.
DONKEYS CAN’T FLY
A water flurry pours over Andrea’s head, but he is undauntedly ready to
say “I don’t get wet”; Valentina
hides behind a bulky chair whispering the sentence “here I’m not”; a blue jacketed Vezio escapes a match with a covey
of birds thinking by himself “you are not
my friends”. The children, Armida Gandini makes heroes in her works, are
children that desire to communicate a decision more than a message. Those acting as main characters aren’t nice little toddlers that can
move a public prone to sentiment or longing for childhood. They are little
heroes that have already developed their own way of thinking and of standing
face to face with the world. They are ready to show who they are. They are willing to have the possibility of
making up their own mind. As a matter of fact, Gandini chooses to depict pre-adolescent age conceived as that stage of growing and of transition during which a
person begins to develop its own individuality and starts to understand what do
independence and autonomy mean. This is why we are mostly given to meet lonely
characters, situated within frameworks that at the beginning were the fairy
tales’ wood or the labyrinth – standing
for the troubles of life and for the choice itself; and that nowadays are empty
places devoid of a true connotation. Here the artist’s black pencil draws unreal – or better, I would say,
surreal environments. Those metaphorical backgrounds evoke the deepest layer,
the thought and the imaging and are carried out by means of a handwriting which
is at the same time naked but refined, coherent but puzzling – far from the
most frequent formulas to be found in the contemporary drawings. These
are the mental places that exist in relationship with the heroes’ actions;
which underline that emotional – more than physical – movements are to be shown us, as everything
is happening in the characters’ brain or
belly.
But whose photos are those confined
in Armida’s boxes ? Who really are those children? “The pictures come from family photograph records (starting from my
personal ones), a way of making public what is private by widening it. Pictures
that were intended for familiar display
only, thus become images from a collective memory, as if doors opened
over inner worlds” the artist explains. While
she was skimming the albums, Armida realized how much those snapshot were
alike, after all. This comes from the fact that there are events, actions and
ordinary gestures that pertain to everyone and that are commonly granted
eternal life by a camera in the course of the years. Such
are the experiences we go through in our lives and that affect our identity
definition; such are the encounters, the relationships we established, and the
situations that moved us.But these private images
– representing the subjective living, are relocated into a more general
dimension by means of a further superimposition of a brief text fragment, which
disentangles the memory from a precise autobiographical reference, from an
ordinary and undifferentiated everyday record.In previous works, such as the series “Places of the Memory”, the superimposed
words came from fairy tales. In the works stood out sentences like Little Red Riding-Hood and the Wolf, Pinocchio before he met Lucignolo, Alice into
the labyrinth: excerpts that, quoted in that way, became puzzling,
as far as they didn’t give us any clue to interpret the work, but a hint for our
meditation. In
her more recent works the short sentences – rigidly in the present tense – do
not change formally, but assume an imperative strain of refusal or of
unacceptance: I no longer play, I’m not a Lady, You can’t deceive me. Those are
sentences expressing disagreement and linked with the events the work evocates.
The
characters rebel to what is conventional – often an equivalent of what is
conformist or obvious. The refusal is here represented in the clumsy and
playful way of typical childish gestures. In Gandini’s consideration it goes
even further on, as what the heroes defend is their own space and thought. They
deny something to assert themselves. And the only way of warding themselves is to create their own
cages, their reassuring – but also self-tricking, boxes; it is that of
blindfolding and ear plugging: of insisting not to hear and not to see so as to
arrive to refuse what is obvious.
We do not know if Valentina and Vezio will manage not to cut their head
open by knocking against the life walls. Andrea has already wetted.
Sottili scatole di legno – contenenti varie sovrapposizioni di vetro, stampe su fogli di acetato e carta fotografica – rappresentano i luoghi della memoria di Armida Gandini. Al loro interno, la sequenza dei fogli trasparenti non è casuale, poiché simula il processo di riaffioramento del ricordo. Nel tentativo di indagare la propria identità attraverso la memoria, Armida Gandini, infatti, utilizza tre strati i immagini rappresentanti rispettivamente il proprio vissuto, il ricordo di un’esperienza e la sua chiave interpretativa. I tre livelli di elaborazione si appoggiano l’uno sull’altro come in una stratificazione geologica, rendendosi reciprocamente necessari per la creazione di un’unica immagine.
Lo strato più profondo è quello della memoria confusa del proprio passato, rappresentata dal bosco: gli alberi e le foglie sono fotografati fuori fuoco e successivamente stampati su una carta traslucida mentre, nel più recente ciclo di lavori, il “bosco delle fiabe” viene disegnato, scansito e stampato con il plotter. Il livello successivo è quello di un ricordo specifico, rappresentato dalle immagini, anch’esse sfuocate, dell’artista bambina. Tali fotografie, riprodotte su acetato e inserite tra fogli di vetro, in virtù delle reciproche distanze proiettano sul bosco le proprie sagome. All’ultimo gradino viene collocata la fiaba, usata da Gandini come guida alla lettura; attraverso l’insegnamento in essa contenuto, il ricordo assume carattere generale e viene cosi’ svincolato dalla stretta autobiografia. Gandini sembra anche rassicurare chi guarda sull’esito positivo delle sue avventure: la piccola della Passeggiata nel bosco sembra aver percorso una lunga strada e attraversato situazioni pericolose, giungendo tuttavia a casa, arricchita da tante esperienze. Come Armida, molti hanno alle spalle il lupo, o Lucignolo, o il gatto e la volpe, o le sorellastre di Cenerentola: le fiabe che l’artista utilizza divengono così paradigmi anche del nostro vissuto.
Antonella Crippa, recensione da Tema Celeste 87/2001 in occasione della mostra I luoghi della memoria presso Fabio Paris Artgallery, Brescia
Places of memory by Antonella Crippa
Armida Gandini’s Places of memory take the form of slim wooden boxes filled with different layers of glass, printed acetate, and photographic paper. The order in which these transparent sheets are placed is by no mean random and seeks to echo the process by which memories are evoked. In an attempt to explore identity through memory, Gandini represents the three stages, which that she considers part of this process – the real experience, the memory of the experience, and the key to its interpretation-with three layers of images.
Placed close together, one on top of the other, like rock strata in a geological excavation, the three levels are presented as being essential to one another in order to create a single image. At the deepest level lies the confused memory of one’s past, represented by out-of-focus photographs of woods, trees, and leaves that have been printed on translucent paper. In the artist’s most recent series of works, this “fairytale wood” has been drawn, scanned, and printed using a plotter.
The next level is that of the specific memory, symbolized by further out-of-focus images, this time of the artist as a child, which have been reproduced on acetate and inserted between sheets of glass. A carefully calculated distance between the two layers allows the shadowy forms of the figures depicted on the acetates to fall onto the photographed scenes of the woods. The top level depicts the fairytale, which Gandini includes as a key to interpreting her work; the parable contained within this level allows the private, personal memory to become general and, released from its strictly autobiographical formula, applicable to all. Gandini seeks to reassure the observer that her adventures have a positive outcome. The little girl in Passeggiata nel Bosco (A Walk in the Woods) has traveled a long way and passed through many dangerous situations, but she has arrived safely home, enriched by her many experiences. The wolf, the wicked witch, the cat and the fox, Cinderella’s ugly sisters – we are all running from the shadow of evil; we are no different to Gandini and the stories she uses become paradigms for our lives.
Per gli antichi è segno dell’informe, metafora del primordiale, corrispettivo del magma originario. Il bosco per i greci è hylem, per i latini silva, ovvero dimensione sorgiva, fonte degli eventi primari, bacino degli accadimenti iniziali. Il bosco, insomma, è il luogo per antonomasia del mito, di quel ‘racconto dell’origine’, come recita il suo significato etimologico, che una lunga tradizione di pensiero fa scaturire dalla categoria psicologica e cronologica dell’infanzia.
Armida Gandini ha scelto questo luogo come habitat delle sue più recenti opere. Si tratta di una ‘selva’ in cui l’informe dell’origine viene plasmato dalla forma della memoria che, depositandosi su di esso, gli dona letteralmente una nuova luce.
Alla visione archetipica e universale dell’infanzia emblematizzata dal bosco, Armida Gandini sovrappone la propria versione quotidiana e particolare: questo assemblaggio di elementi analoghi e contraddittori genera un racconto paradossale, una narrazione che oscilla fra il paradigma mitico della fabula e il dettaglio della fiaba. Il tempo dell’infanzia (la fiaba) è compendiato dalle frasi sovrimpresse alle immagini: brevi periodi declinati rigorosamente al presente, espressioni linguistiche dal tono descrittivo e dal senso allusivo. L’infanzia del tempo (il mito) traspare dal fondo dell’opera, evocando una dimensione remota, un contesto cronologico fluido, suggerito con estrema delicatezza da una sottile osmosi visiva.
Il bosco, per i moderni, e in particolare per il pensatore che sulla modernità ha pronunciato forse le parole più significative, è Lichtung, ovvero, nella sua accezione primaria, ‘radura’, boscaglia che si dirada e lascia quindi filtrare la luce. Per Heidegger questo luogo in cui il chiarore penetra da una direzione trasversale e assume gradazioni molteplici è una metafora dell’opera d’arte che, nel suo tentativo di sottrarre la verità dal buio della non conoscenza, si limita tuttavia a “gettare fasci luminosi obliqui sull’essere”. Armida Gandini traduce quasi alla lettera questa asserzione heideggeriana. Nelle sue opere il bosco è una dimensione in cui la luce rischiara, ma non chiarisce il senso degli eventi rappresentati. La fonte che emette questa luminosità anomala è la memoria che, nel suo esplicarsi, vela gli accadimenti di una patina lucente ma offuscata.
Se è vero che, nel ricordo, il tempo ritorna con un’aggiunta di senso, in queste immagini il significato sembra proprio consistere nella loro incompleta chiarezza, nel bagliore non del tutto terso che le caratterizza. Nella qualità luminosa degli sfondi c’è inoltre un tono elegiaco che si somma a quello enigmatico presente nelle frasi collocate in primo piano. La memoria accusa una sorta di vuoto, un conato malinconico, uno spaesamento di fronte a se stessa, al suo rendersi visibile. Nel bosco, d’altra parte, come raccontano le favole, è quasi impossibile che non ci si perda.
Testo critico di Roberto Borghi per la mostra I luoghi della memoria presso Fabio Paris Artgallery, Brescia, 2001
Irretire, catturare fisionomie, voci, ombre, sogni, favole. Armida Gandini da anni lavora sul corpo che ha perduto il senso della sua globalità e resta come ingombro, traccia, impronta, vibrazione, desiderio, onda psichica. Il corpo che si disperde nella folla, che va alla deriva nella vita quotidiana. Si è aggirata attorno al corpo – al calco del corpo, magari di un suo frammento – come a un fardello scaricato dalla storia dell’arte, dalla fotografia, da giornali e riviste, ma anche dall’ingombro di parenti, amici, conoscenti, persone incontrate per strada. Sono nati così discorsi sulle forme sociali del nascere e del morire, del bene e del male, del desiderio e dell’amore.
Ora al centro del suo interesse è il corpo della favola. E’ anche il corpo dell’infanzia, che si dilata e viene a coincidere col mondo, che crede che altro non sia che un’estensione delle proprie braccia e gambe, da reinventare a piacimento. E infatti Armida Gandini fa coincidere il suo corpo con la natura, il bosco delle favole, attraverso l’accumulo di occasioni e memorie finissime, foto della propria crescita personale, degli incontri, dei desideri che le favole si avverassero.
Diventa l’addentrarsi in un ritmo generale dell’esistenza, nella sensibilità che custodisce tutto ciò che alimenta una vita nel mondo. E’ come se le figure del proprio vissuto si facessero avanti dal corso naturale del mondo, come creature di una verità eterna. Così decanta la materia calda e dolente della propria esistenza, sottrae le figure ad ogni psicologia: le assimila a un’esperienza, all’asciutta ineluttabilità del racconto favoloso. L’arte torna così a scrittura generativa del mondo, di cui offre una simbolizzazione primaria. Azioni e funzioni come nelle favole, in una topologia mitica.
Il bosco è infatti il luogo dell’iniziazione alle forze primordiali della vita. Lo sappiamo fin da piccolissimi, da quando ci raccontano la storia di Cappuccetto Rosso, che i boschi sono pieni di simboli, dove si attinge un linguaggio di solidarietà fra la moltitudine di forze vitali e gli uomini, che qui hanno maturato le tecniche primarie della sopravvivenza.
Il bosco delle favole vuol restituire uno spazio fatale d’incantesimo, nell’ordine progettuale, astratto, di un’installazione in contatto sensoriale, emotivo, con l’esperienza del mondo. In fondo, gli enigmi che pongono le favole sono semplici, legati alla trama stessa dell’esistenza: il tempo sospeso delle favole diventa il tempo sospeso dello sguardo, che riconosce nella storia individuale le tappe d’una iniziazione alle leggi eterne della vita e della natura.
L’assenza della natura, come compagna costante della nostra vita quotidiana, l’avvertiamo non tanto come distruzione del paesaggio tradizionale, quanto come solitudine, esilio, come se la natura stessa non fosse piu’ la patria dell’uomo. Armida nel suo bosco sembra mettersi dal punto di vista dei romantici, che potevano trasfondere la loro interiorità nel paesaggio, sentito come luogo di misurazione del rapporto tra l’individuo e l’universo. Ma ora è la misura di una distanza, perché tutto si dilegua, le voci incontrate per strada come le voci di dentro. E’ il dialogo steso tra fotografia monocroma, solo ombra, e fotografia a colori, materia concreta in cui si rapprende la luce.