Testo in catalogo di Annamaria Chiara Donini e Massimo Tura
Partiamo da un assunto intuitivo: ciò che qualifica l’artisticità di una rappresentazione, nel registro figurativo come in quello a-figurativo, è la capacità di ritornare al suo presupposto imprescindibile, di soffermarsi sul tema della visione. Analizzarne le regole compositive, indagare il rapporto che istituisce tra il pieno e il vuoto, percorrere con perseveranza le tracce della sua operatività originaria: questi alcuni degli atti non occasionali, ma essenziali, del gesto artistico. Ebbene, la volontà di eleggere la visione a questione costitutiva della produzione artistica rappresenta – a nostro avviso – il nucleo della ricerca di Armida Gandini, alla quale va riconosciuto il merito, fra gli altri, di mostrarci alcune delle sue dinamiche e, in particolare, di indagare la funzione del concetto che governa il faticoso e sperimentale percorso di emersione della forma. Una questione che porta alla memoria l’eredità del suo primissimo maestro, il torinese Beppe Devalle[1], che a lungo ha indugiato sull’uso tettonico della tecnica del collage, sulla capacità di quest’ultima di mettere a tema la costruzione della figura. La modalità di smontare l’immagine fino ad ottenerne frammenti decontestualizzati e di ri-assemblarla in organismi nuovi e autonomi nasce da una mirata analisi della struttura complessa della visione. Un lavoro che si muove sull’interazione tra concetto e immagine, che cerca un’equidistanza tra le categorie del pensiero e le strutture primitive dell’immaginario. Il risultato è un uso intuitivo delle funzioni concettuali che tagliano, fondono e allacciano in corrispondenza con le modalità relazionali di un’immaginazione diairetica, che associa secondo un ordine geometrico, mistica, che lavorando sulla viscosità degli elementi vi cerca possibili analogie e nuove costellazioni, disseminatoria, che muove dalle differenze in vista di ricomposizioni unificanti[2]. Un processo che Armida Gandini investiga, inoltre, avendo ben chiara la funzione del piano intersoggettivo. La costruzione dell’immagine, infatti, presuppone che la nostra mira incontri e sia attraversata dalla mira di altri, che il nostro sguardo incroci e si annodi con quello altrui. Vedere significa coordinare una pluralità di visioni, vuol dire disporsi sull’intersezione speculare di più riflessioni.
Se questo è quanto della visione, nella sua vocazione generale, ci interpella, non possiamo dimenticare il ruolo centrale svolto dalla luce. Se la produzione di immagini rappresenta il compito dell’arte, la norma della luce è la condizione della sua costruzione e la premessa della sua visibilità. Volendo coglierne la funzione nel lavoro di Armida Gandini, ci sia concessa una breve digressione al fine di mostrare la duplice modalità del suo rapporto con la forma. In un primo caso, il primato cade sulla luce. E’ questa che educa l’immagine, che le dà quel corpo necessario alla sua visibilità. La luce come condizione di manifestazione di una realtà che la rappresentazione artistica deve limitarsi a riprodurre fedelmente, senza interferenze, lasciandole la possibilità di irradiarsi. Rispetto a questa prima modalità, possiamo individuarne una seconda che rovescia i termini, assegnando priorità alla forma. In questo caso è la luce ad essere condotta da una sapiente direttiva che la piega alla costruzione formale. Alla concezione realistica si contrappone così un uso concettuale della luce. E’ questo il nostro caso nel quale l’artista piega la luce alle esigenze della forma, in cui la orienta in una direzione funzionale all’equilibrio formale. La lacerazione (Adora, 2016), il forame (Pulses, 2016), il graticcio (Coordinate, 2016), che già delimitano la figura, che già ne abbozzano il profilo, diventano le fessure da cui filtra quella luce che darà visibilità e consistenza plastica all’immagine. La sorgente luminosa trova così nella forma uno spazio di irradiazione, ma regolato, offrendole, a sua volta, una sovraesposizione, un’apparizione trasfigurata.
Ma ritorniamo alla costruzione dell’immagine, a quella che, a nostro modo di vedere, rappresenta la cifra di questo lavoro. Un’immagine che, pertanto, non può essere riduttivamente intesa come un mero «cadavere del reale»[3], ma positivamente come un ordine dinamico soggetto a ripetute rivisitazioni e a costanti rinnovamenti, come «un esorcismo contro la morte»[4] in continuità con il lascito devalliano. Lo si vede nel lavoro La famiglia[5] in cui la sovrapposizione dei volti incrocia idealmente sensibilità, visioni, mondi, costituendo delle genealogie ideali. Lo si può ricavare in un’altra esperienza in progress come Coordinate che mostra come la costruzione dell’immagine, da un lato, richieda il concorso attivo di chi la produce e di chi la fruisce, ma dall’altro implichi uno iato incolmabile che ne impedisce il contatto e la piena adeguazione. La griglia, infatti, se per un verso rappresenta una quinta che spezza la continuità della forma, che negandone l’unità chiama lo spettatore a uno sforzo di completamento, dall’altro delimita un non luogo e genera una zona intermedia. Uno spazio inabitato in cui l’immagine s’arresta in una sospensione pneumatica e la luce ricrea una corporeità fessurata, sezionata dal cesello del bisturi. Lo si riconosce nel dialogo con la storia dell’arte, in cui l’immagine, ereditata dal passato, è preceduta da altre e altre ne invoca, delineando una durata ininterrotta raccolta in ogni singola opera. È quanto si può osservare nella costellazione di immagini che, a partire dalla lacerazione del picassiano Donna che piange[6] e dall’intenso compianto di Rogier Van der Weyden[7], costituisce il filo conduttore della presente esposizione. Un dialogo libero e creativo in cui le opere del passato offrono un repertorio di immagini riutilizzabili. Si pensi alle Pagine bagnate, in cui la figura umana, tolta dalla sua composizione iniziale e sottoposta all’idea dell’artista, trova nuova vita in forma di lacrima. Interrogata sulla sofferenza dell’umano, la storia dell’arte risponde con un campionario di posture, movenze, espressioni a disposizione della pluralità di sagome e profili in cui il fluire lacrimale si raccoglie. Vera antropometria del dolore, la stilla inorganica interseca il cuore vivente dell’uomo, mostrandone una reversibilità imprevedibile. Ma c’è dell’altro, perché il corpo-lacrima ritagliato, estraniato dall’opera che contribuisce a definire come un tutto compiuto, trova una nuova collocazione sulla pagina scritta, dimostrando di cercare un’interazione con la parola. In tal modo il suo valore antropometrico, limitato alla mera risistemazione descrittiva, si carica di un valore antropografico, si estende all’ambito della scrittura, incontrando sia la sintassi concettuale che le sonorità delle immagini, un «esercito di metafore»[8] che non chiedono solo d’essere viste, ma che chiamano all’ascolto.
L’immagine come crocevia di visioni, si diceva poc’anzi. Platone osserva come ognuno rifletta se stesso nell’occhio dell’interlocutore; uno specchio nel quale lo spettatore si vede e si conosce[9], nel quale coglie l’immagine nascosta del suo volto, l’espressione privilegiata della sua identità sconosciuta. Qui lo specchio restituisce un profilo ignoto di noi stessi e del mondo, ma da un punto di vista ideale; lo riflette, ma dalla prospettiva privilegiata dell’osservatore.
Tuttavia se la funzione dell’occhio è assolta dalla lacrima, quale goccia di luce in vibrazione, la capacità riflettente della superficie speculare è mantenuta, nonostante l’effetto prodotto sia deformato: il riflesso della stilla si presenta come un prodotto anamorfico. Lo specchio convesso della lacrima, infatti, non garantisce più una prospettiva soggettiva alla visione e scorre senza meta. Il piano riflettente, alterato da una superficie difforme, perde levigatezza e regolarità, riconsegnandoci una realtà ab-errante. La lacrima come secondo specchio, occhio dell’occhio di un mondo prima invisibile. In questo passaggio la lacrima non si limita a moltiplicare i punti di vista, ossia a generare una visione diffusa, ma mostra un’altra capacità. Se a un primo approccio essa svolge una funzione espressiva, fluendo lungo i greti del volto, ne scandisce le espressioni e ne rivela l’interiorità nascosta; se nella sua trasparenza minerale «trascina fuori la mia carne»[10] esponendo agli altri tutta la mia vulnerabilità organica, ora la lacrima mostra di poter riflettere anche una realtà esterna, di offrire a un mondo sconosciuto l’opportunità di apparire. Emancipatesi così dal viso, le lacrime cadono fuori dal quadro: specchi in disseminazione che portano a visione ciò che vive all’esterno del ritratto e che può rinascere nel suo riflesso. L’originalità del processo ricostruttivo sta nell’evasione dalla bidimensionalità, nella sortita in uno spazio non controllato né dalle regole della prospettiva, né dalla logica del sentimento; sta nell’attraversamento di un luogo caotico e casuale. Non più trattenute dalla cute dolente della Vergine, tempio umano del divino, le lacrime cadono dalla parete, si congedano dalla finzione prospettico-sentimentale e invadono lo spazio volgare e prosaico del pavimento (Gustose e dolcissime). Perduta la loro carica emotiva, non rinunciano alla capacità di riflettere, di produrre figure, di costruire visioni. La lacrima diventa metafora di una contemplazione diffusa, campo di forze da cui le immagini si propagano in più direzioni a partire dalla sua natura chiasmatica. Chiasmo percettivo che incrocia un dentro e un fuori, la lacrima è un essere della soglia che annoda ambiguamente la trama del visibile con l’ordito dell’invisibile.
Se questa è la torsione impressa alla visione dallo specchio della lacrima, ente di confine che, nel lavoro di Armida Gandini, consente di seguire la sua capacità di smontare e rimontare figure, di costruire costellazioni di forme, il suo motivo (nel doppio significato di tema e di causa) è forse l’ineluttabile sofferenza. L’infinita riformulazione della forma incontra qui l’eterna presenza del dolore, con la stessa insistenza con cui la goccia d’acqua che cade in un bacile colmo (A stilla a stilla) lo alimenta senza tuttavia alterarne il bordo, senza produrne il travaso. Questa la ragione che impedisce alla lacrima di tradursi in un mero gioco della riflessione, in una camera ottica volta a stupire e intrattenere. L’incipit è ancora nella costruzione di van der Weyden in cui la lacrima esprime la sofferenza materna. Quella lacrima che dagli occhi della Madre rivela al mondo lo strazio inconsolabile della perdita filiale, al tempo stesso acquista la vita di una sofferenza redentiva; il dolore interiore che vi è espresso accoglie il gemito della creazione ferita in uno slancio di riscatto. Un’occorrenza quest’ultima, che neppure la scomparsa del sacro può cancellare, che nemmeno il disincantamento del mondo può trascurare. La fragilità di un’anima messa a nudo, come nel caso di Dora Maar (amante infelice di Picasso), la rinuncia dimessa di sé a favore dell’altro, la consegna senza condizioni al suo arbitrio, offrono ancora, e forse ancor di più di fronte alla vulnerabilità dell’umano, una possibile redenzione. Come sapore di un amore violato, come voce di una promessa non mantenuta, odore di una violenza gratuita; come segno di un’affezione incontenibile, la lacrima è il prisma che scompone in una molteplicità di forme l’unità indistinta del dolore. Ma, al tempo stesso, in quanto simbolo dell’acqua, archetipo della purezza, essa continua a parlarci di un gesto catartico, di un lavacro che offre allo spazio profano del mondo e della vita la condizione di quella sempre possibile rigenerazione a cui l’arte non può cessare di tendere.
Annamaria Chiara Donini – Massimo Tura (Agosto-Settembre 2018)
[1] Per un primo approccio con l’opera dell’artista torinese si rimanda al catalogo della mostra Devalle 1940-2013 (M.A.R.T., Rovereto, 16 ottobre 2015-14 febbraio 2016), Electa, Milano, 2015 [2] G. Durand, Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Bordas, Paris 1963, p. 482; tr. it. Le strutture dell’immaginario, Dedalo, Bari 1972, p. 421. [3] R. Barthes, La chambre claire. Note sur la photographie, Gallimard, Paris 1980; tr. it. La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, p. 16.[4] M.M. Lamberti, Dedica per Beppe Devalle 1966-1982, in Devalle (1940-2013), MART, 16 ottobre 2015 – 14 febbraio 2016, Electa, Milano 2015, p. 33.[5] Opere esposte nella personale Armida Gandini, Stranissimo e sempre più stranissimo allestita presso Galleria Azimut, Brescia, 2017[6] Donna che piange, 1927, olio su tela, cm 55 x 46, Melbourne, National Gallery. La tela di Pablo Picasso è il punto di partenza per la “rivelazione costruttiva” protagonista del video di Armida Gandini Adora del 2016.[7] L’opera Pulses trova il suo incipit nella contemplazione della tavola quattrocentesca I sette sacramenti (Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten)del pittore fiammingo Rogier van der Weyden. [8] F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, vol. III, t. II, Adelphi, Milano 1973, p. 368.[9] Platone, Alcibiade I, 133a.[10] M. Merleau-Ponty, L’oeil et l’esprit, Gallimard, Paris 1964; tr. it. L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989, p. 27.
Testo in catalogo di Annamaria Chiara Donini e Massimo Tura in occasione della mostra Gustose e dolcissime, Palazzo Bertazzoli, Bagnolo Mella (Bs)