di Sabatino Cersosimo
È fondamentale per un artista portare la vita nelle sue opere. È una specie di atto dovuto: a ben pensare l’opera è estensione dell’artista e, come tale, essa deve poter “vivere”. La vita non è quasi mai letta come una linea retta ma piuttosto costellata di sobbalzi, declivi e ostacoli che mettono l’uomo sempre alla prova, sin dalla nascita.
Armida Gandini (Brescia, 1968) riflette sui dualismi arte-vita, effimero-concreto, mentale-sensoriale. Nella mostra alla 41 artecontemporanea di Torino, la sua eroina è una bambina che, in uno spazio bianco, sospeso e asettico, deve confrontarsi con barriere fisicamente presenti ma in verità disegnate dall’artista (quindi anche illusorie). Succede in un video e succede sulla carta dove -in quest’ultimo caso- alla figura umana fotografata (riportata con la tecnica del ricalco a trielina) risultano aggiunti, disegnati a grafite, reticoli, corpi geometrici e bande nere, in un’alternanza di trasparenze e saturazioni.
La situazione viene riproposta anche nell’allestimento della mostra: c’è un muro bianco (un foro sulla sua superficie premette di guardare oltre) che tuttavia non raggiunge il soffitto; ci sono una scala di metallo, uno sgabello, una sedia: elementi che si trovavano nelle opere cartacee e nel video, ma che nella galleria sono monchi, incompleti, parte di un’intenzione suggeritrice più che descrittrice. Chi osserva viene infatti attratto dal desiderio di scoprire, “completare” le immagini, avvicinandosi e interagendo, sporgendosi e modificando il punto di vista.
Oltre il muro un altro spazio –al quale si accede non senza dover cercare il passaggio- in cui fotografie (che appaiono come flashback del video; il video potrebbe essere conseguenza dei disegni) appese alle pareti completano l’allestimento. Il concetto di ostacolo tutt’altro che insormontabile è sottolineato già a partire dal titolo della mostra (“Io dico che ci posso provare”) ma, soprattutto, dall’uso dell’acerba fanciulla, più disposta rispetto all’adulto a fantasticare in un mondo da Alice (non a caso personaggio già protagonista di un passato lavoro), che nasce quindi spesso dalla propria fantasia, e forse è proprio la sensazione che colpisce di più davanti a questo grande racconto: è un mondo possibile ma illusorio, come quello che solo i bambini concepiscono.
Nelle opere di Armida Gandini convivono le espressioni artistiche più classiche insieme a quelle più recenti, dal disegno alla performance, dalla videoarte all’installazione. Il suo poliedrico registro tecnico concorre alla costruzione di un mondo ricco di sfaccettature. La sua tecnica è molto raffinata, caratterizzata da quella stessa cura del metodo e del dettaglio che da sempre sta alla base della bella realizzazione artistica: la sedimentazione della pittura attraverso le velature e la differenziazione dell’impasto, l’alternanza dei materiali e il loro dosaggio, sono trasfigurati nelle sue opere stratificando la grafite sulla carta, accostandola a interventi fotografici o fotocopiati, alternando il video all’allestimento di spazi multisensoriali a loro volta costituiti da un’attenta messa in scena. E parlando con Armida ci si accorge che davvero le sue opere sono estensione di se stessa, delicate e trasognate, palinsesti di sottili fogli emotivi riccamente contrastanti, proprio come nelle fiabe.
Testo di Sabatino Cersosimo per ArtKey Magazine in occasione della mostra Io dico che ci posso provare, 41artecontemporanea, Torino, 2009