di Gabriele Salvaterra
Cara Armida, vista l’importanza dei temi della memoria e dell’affettività nei tuoi lavori vorrei partire dal mio primo incontro con la tua opera: la mostra collettiva Petite Vérité del settembre 2010 alla Galleria Il Castello di Trento, a cura di Alberto Zanchetta. Riportandomi ai primi anni in cui frequentavo l’arte, non ti nascondo che questo riannodare le fila ha per me un sapore anche romantico e malinconico. Ma veniamo al sodo: la mostra, usando lo sguardo dell’infanzia, focalizzava l’attenzione sull’emergere di “piccole verità”, transitorie, frammentarie, contrapposte alle impossibili verità totalizzanti cui spesso andiamo alla ricerca con scarsi risultati. Condividi ancora questo sguardo ingenuo e questo amore per (diciamo così) la parzialità delle cose?
Mi sembra passato un secolo da Petite Vérité, mi sovvengono alcune immagini, le persone incontrate, l’atmosfera accogliente della Galleria Il Castello che sapeva un po’ di casa, perfetta per una mostra sulle piccole cose del quotidiano visionario dei bambini. Anche se per me rievocare l’infanzia non ha mai avuto un significato nostalgico, piuttosto identitario. Sullo sfondo dei miei lavori c’è sempre una domanda sulla condizione e l’identità attuali, di come si sono definite nel tempo in rapporto al passato e alle esperienze che ognuno di noi attraversa nella propria vita, anche quelle apparentemente transitorie, frammentarie. In generale sono più attratta dalle singole storie che dalla grande storia. Nella totalità di un’immagine seleziono i dettagli, i particolari sono estremamente rivelatori, cambiano la percezione delle cose, a volte rendono perturbante ciò che a prima vista sembra privo di interesse. Ciò che Roland Barthes chiama “punctum” ne La camera chiara, quel segno particolare della fotografia che trafigge senza possibilità di difesa… è quello che cerco quando curioso negli album di famiglia e che, indipendentemente da me, innesca una serie di associazioni; o il semplice gesto di una carezza di una bambina, realmente accaduto, che mi ha portato a elaborare il lavoro dedicato ai Padri della cultura. Ma l’elenco potrebbe continuare… se ci penso ho la sensazione di aver sempre lavorato in questo modo, fin dall’inizio. La mia tesi di laurea dedicata a Eric Rohmer iniziava con un suo pensiero in cui affermava – cito a memoria – che la grandezza del cinema sta nella capacità di rendere epiche le azioni di ogni giorno e le cose comuni. E qui potrebbe cominciare un lungo discorso sullo sguardo…
Dunque, il modo con cui guardiamo le cose le cambia? La frase di Rohmer mi fa pensare alle tue fotocomposizioni, se così possiamo chiamarle, la serie insomma de I luoghi della memoria (dal 2000). In effetti più che una fascinazione per l’infanzia tout court è forse un tentativo di creare interferenze tra storie private un po’ dimenticate nei cassetti di casa e una dimensione a suo modo epico-collettiva, in questo caso rappresentata dalle memorie di fiabe e leggende. È così?
Si, io credo di si, che le cose cambino in base alla prospettiva con cui le guardiamo e illuminiamo, come già affermava Aristotele: “Le cose non sembrano le stesse a chi vuol bene e a chi odia, né a chi è adirato o a chi si trova in stato di calma, bensì appaiono del tutto differenti o in gran parte differenti”.
Per quanto riguarda Rohmer, mi fa molto piacere che tu l’abbia collegato ai progetti degli anni 2000, in effetti era proprio ai suoi personaggi che pensavo quando realizzavo le scatole stratificate de Il bosco delle fiabe, quelle che tu chiami fotocomposizioni; nessuno aveva mai usato questo termine, che in effetti però rappresenta bene il processo di lavoro. In quel periodo io avevo la necessità di fare un viaggio a ritroso nelle immagini della memoria, mia e delle persone che mi circondavano. Nello stesso tempo sentivo l’esigenza di uscire dal frammento personale per trovare una forma più universale nella quale l’interlocutore potesse riconoscersi. Smontare e ricomporre la fotografia dell’album di famiglia, decontestualizzando il protagonista dal suo ambiente privato, non mi sembrava sufficiente; il ricorso alla fiaba diventava così uno strumento per trasferire l’esperienza soggettiva in una dimensione più generale mediante la presenza di un altro livello linguistico, dato dal breve frammento di testo e dall’accostamento della persona a un personaggio della fiaba, quindi a una figura rappresentativa di un determinato stato dell’umano. Si trattava di trovare un equilibrio tra due dimensioni, quella reale-privata e quella simbolica-culturale.
Questa serie ci riporta agli anni del tuo ingresso nel mondo dell’arte. Scorrendo la tua biografia, tra il 1996 e, con più continuità, dal 1999 si attestano infatti le prime mostre. Quali erano i tuoi riferimenti culturali in quel periodo e con quale contesto ti confrontavi? Ti confesso che spesso ho la sensazione di appartenere a una generazione che “si è persa qualcosa” a livello di fermento, inoltre considero il ventennio 2001-2020 (tra il crollo delle Torri Gemelle e l’attuale pandemia) come un periodo di riflusso e perdita di diverse conquiste dei decenni precedenti. In particolare rispetto agli anni Novanta che, sulla scorta del crollo del muro di Berlino, mi sembrano un decennio proiettato nell’ottimismo e nella crescita. Era anche la tua sensazione?
Gli anni Novanta sono stati un decennio molto fertile e innovativo dal punto di vista artistico e io, pur in maniera del tutto decentrata, ne ho respirato l’atmosfera. Sono gli anni di produzioni d’arte successivamente teorizzate nei testi di Nicolas Bourriaud Estetica relazionale e Postproduction. Ma anche quelli di Freeze e Sensation. In quel periodo post-diploma a Brera, cercavo di mettere insieme i pezzi di un puzzle che aveva tante anime diverse e quindi molte possibilità combinatorie, seppure in antitesi, perché tentavano di far dialogare la tradizione con la sperimentazione, il disegno per esempio con lo scontorno digitale. In effetti mi sentivo un’identità multipla che oscillava tra gli opposti e non è un caso che mi sia riconosciuta in una pagina delle Memorie di Adriano, in cui l’Imperatore, perfettamente cosciente dei caratteri di chi gli ruota attorno, si interroga sulla propria personalità, definendola informe. Ne è nato un progetto – e una mostra – che raccontava della matrice letteraria di molti miei lavori.
Sicuramente già in quegli anni è emersa la mia propensione a rivisitare materiale visivo già esistente, dalle immagini della storia dell’arte a quelle del mondo della comunicazione e alle fotografie degli album di famiglia. Anche se la scelta non è mai indifferenziata, non si tratta di fare qualcosa con ciò che si ha a disposizione in un mondo saturo di oggetti e di immagini, ma di lavorare su specifiche immagini, quelle che catturano la mia attenzione, che mi commuovono, che cambiano il mio modo di guardare il mondo… e che mi piace condividere.
Da un lato la multimedialità – penso a Cattelan, Whiteread, Gonzáles-Torres, Beecroft, Barney, Neshat ad esempio – dall’altro l’attitudine appropriativa che mi piace definire post-Richteriana, postmoderna o, più correttamente, come dici tu, relativa alla Postproduction di Bourriaud. In effetti nel tuo lavoro il recupero di repertori di forme e testi culturali esistenti ha sempre come fine ultimo la creazione di una piattaforma di condivisione e relazione che è un po’ quello che segna il passaggio dalla scaltra citazione postmoderna alla categoria che ha in mente lo studioso francese. Alan Jones parla invece (riferendosi agli anni Ottanta) dell’artista che, come una gazza ladra, sa bene dove andare a rubare, perché ciò che sgraffigna in definitiva rispecchia comunque la sua identità in modo difforme ma autentico. Al di là delle specifiche immagini che riutilizzavi a quali artisti guardavi in quegli anni a cavallo del millennio?
Curiosa la parola sgraffigna… mi viene in mente il più grande tra i ladri dell’arte del passato, Pablo Picasso, quando sosteneva che l’artista geniale non copia, ruba!
In quel periodo ero molto interessata al disegno e guardavo, per de-formazione accademica (il mio professore a Brera era stato Beppe Devalle) a David Hockney disegnatore, ma anche teorico, studioso dei segreti nascosti degli antichi maestri e intrigato dalle nuove tecnologie. L’altro artista che mi affascinava molto era William Kentridge: un autore a 360° che attraversa molti linguaggi espressivi e che privilegia il disegno per la costruzione dei suoi intensi corti animati. Sicuramente pensavo a Kentridge durante la progettazione di Noli me tangere, il primo video in cui ho realizzato l’idea di mettere insieme disegno e fotografia dilatando l’immagine nel tempo. Inoltre, per quanto riguarda Il bosco delle fiabe, il riferimento era agli specchi di Michelangelo Pistoletto. Forse ai tempi non ne ero del tutto consapevole, ma ora posso dire che sia lo scontorno che la ricerca di profondità prospettica delle scatole nascevano anche da quella suggestione.
Beppe Devalle è un artista di altissima levatura, per lui disegno e studio dal vero sono centrali nello sviluppo di un lavoro che poi può diventare anche molto concettuale ed esistenziale. Com’erano le sue lezioni a Brera e quanto peso ha avuto la sua personalità nell’importanza che il disegno continua ad avere nelle tue opere?
Nella seconda metà degli anni Ottanta Devalle proponeva un ritorno alla pratica del disegno dal vero come processo fondamentale dello sguardo, dedicandosi egli stesso alla copia dei modelli a fianco dei suoi concentratissimi studenti. L’aula di Devalle era unica a Brera: pulita, ordinata, munita di tavoli da disegno funzionali; un ritorno alla “regola” comportava rigore, metodo e un’organizzazione disciplinata dello spazio. Mi ricordo la presenza di calchi della statuaria classica recuperati dai corridoi dell’accademia, in particolare il gesso delle gambe di Canova sul quale, frastornata e confusa, ho passato l’inizio del primo anno di corso: non riuscivo a focalizzare che disegnare la posa di quella statua significava finalmente vederla. E riconoscerla nella realtà. Non si può amare il lavoro di Bruce Nauman legato al contrapposto (visitando la mostra a Punta della Dogana mi sono sentita a casa) se non si ama il movimento che gli scultori greci hanno conferito alle loro opere nel tentativo di renderle vive. Questo è solo un esempio, ma credo dia la misura del grado di apertura che, in prospettiva, mi hanno dato le lezioni di Beppe Devalle.
Vorrei ricordare che ho avuto la fortuna di frequentare il suo corso nel periodo in cui Alberto Garutti era suo assistente. Una presenza sfuggente. Forse si sentiva fuori luogo, ma in sintonia con chi tra i suoi allievi desiderava avere un punto di vista diverso sul fare arte.
E infatti nel tuo caso il disegno si relaziona con altri frammenti visivi e, correggimi se sbaglio, in un certo senso funziona come strumento da un lato guastatore (perché pone opposizioni e limiti alle figure) e dall’altro sviluppatore di immaginario (perché non ancorato a una realtà fattuale). Eppure in tutto ciò stupisce forse che tu sia stata spesso coinvolta in rassegne sulla fotografia, anche di carattere ordinatorio/antologico sulla situazione italiana degli ultimi anni. Penso alla rassegna di Gallarate del 2009 o a Effetto Man Ray #2 del 2017 curata da Piero Cavellini. Insomma la tua “etichetta”, con tutti i limiti che hanno le etichette, è di stampo fotografico…
In realtà mi definirei un’artista che utilizza la fotografia allo stesso modo di altri mezzi, il disegno, il video, l’installazione. Non sono una fotografa nel senso classico del termine e la mia partecipazione al Premio Gallarate del 2009, infatti, prevedeva immagini elaborate in postproduzione del set di Noli me tangere: degli ibridi di live action e disegni di uccelli sovrapposti in fase di montaggio. La stessa cosa vale per la mostra curata da Piero Cavellini a Spazio Contemporanea, per la quale ho selezionato una serie di opere tra video, collages digitali e immagini incise in relazione alla personalità e al genio di Man Ray. È vero però che spesso la fotografia è un punto di partenza del mio lavoro, non lo scatto fotografico, ma l’immagine trovata, incontrata sfogliando libri e riviste, album e archivi, banche dati e vecchie pellicole. Non la scelgo in base a criteri estetici, ma in funzione del progetto che sto sviluppando: durante il percorso la fotografia si modifica formalmente e assume nuovi significati.
A proposito ancora di immagini trovate e reimpiegate, dobbiamo parlare di cinema storico: un serbatoio per te inesauribile di immaginario, passione, innamoramento. Trovo negli artisti visivi così legati alla Settima Arte (penso al pittore Luca Coser oltre che a te) una concezione romantica e un po’ malinconica delle immagini in movimento, corrispondente alla possibilità – ancora sentita fino agli anni Sessanta – di riuscire a fare la Rivoluzione attraverso un’estetica anche molto popolare. È una mia lettura forzata o ti potresti riconoscere in questa visione? Cos’è per te il cinema?
Appartengo a quella generazione cresciuta con Fuori orario. Alla maniera di Enrico Ghezzi per me il cinema è la “magnifica ossessione”. In quegli anni l’unica alternativa alla sala cinematografica era la televisione e io inseguivo la programmazione di Rai 3 per recuperare i film che hanno fatto la storia del cinema, rimanendo alzata fino a notte tarda per registrare i capolavori che Ghezzi si ostinava a mandare in onda programmaticamente fuori orario. Una vera sfida che metteva a dura prova la dedizione dei cinefili… In attesa dei passaggi TV allora l’unica alternativa era quella di prenotare un mini schermo alla Sormani per poter vedere quei film leggendari, anche in funzione della mia tesi, della quale era relatore Francesco Ballo. L’immagine di me stessa seduta davanti al piccolo televisore mentre visiono i film di Rohmer e dei suoi maestri (Murnau, Rossellini, Hawks, Hitchcock, ecc.), con le cuffie che mi isolano dagli altri fruitori della biblioteca, immobile davanti alle immagini in movimento, rappresenta molto bene il mio rapporto con il cinema come “finestra sul mondo”. Lo è stato fin dall’inizio, diciamo da quando ho preso consapevolezza che quelle inquadrature catturavano la mia attenzione dissociandomi dalla realtà e rivelando, del reale, qualcosa che sfugge alla visione diretta. Improvvisamente la vita era quella organizzata nello spazio e nel tempo del campo della proiezione. In realtà dovrei dire della scatola della televisione, perché la prima volta che mi sono sentita sedotta da un film fu quando vidi poco più che bambina Marnie di Alfred Hitchcock e ciò diede inizio appunto alla magnifica ossessione.
Pensi che Marnie sia così centrale nella tua passione e nel tuo sviluppo artistico solo perché è stata un’esperienza di iniziazione cinefila o anche per caratteristiche intrinseche della sua estetica? Poi parli di cinema come “finestra sul mondo” ma la predilezione di Hitchcock per l’irrazionale e l’insolito può forse far pensare che sia anche una scappatoia nell’immaginario. Quale dei due binari segui con più dedizione?
Quando parlo di una cornice sul reale, non intendo la realtà come dato ultimo oltre il quale non si possa andare, ma un punto di partenza per una trasformazione di senso prodotta dal cinema come linguaggio, strumento estetico di rivelazione di qualcosa che altrimenti non sappiamo o possiamo guardare. Ma soprattutto vorrei sottolineare la capacità magnetica del cinema di attirarci verso quella finestra dove tutto passa e, paradossalmente, dove si è più vicini alla vita proprio perché si è estraniati dalla vita.
Il mio incontro con Marnie rappresenta un evento del tutto inaspettato; parlo di evento come esperienza che ci attraversa oltre a qualcosa che ci costringe a cambiare punto di vista sulle cose (nello specifico mi ha aperto gli occhi sul fascino ipnotico che può avere l’immagine). Ero troppo piccola per comprendere l’estetica di Hitchcock che non conoscevo. Vorrei raccontare un aneddoto significativo che riassumo brevemente: una sera, dopo cena, accendiamo (io e mia mamma) la tv della cucina e appare un’inquadratura di un dettaglio di una borsa gialla; il campo si apre e si vede una giovane donna ripresa di spalle che cammina su una banchina di una stazione in procinto di prendere un treno. Avevamo perso la sigla per pochi secondi, quindi anche il nome del regista… ma io ne fui catturata. Non ho più dimenticato il giallo della borsetta di Marnie, ma anche il rosso associato al trauma della protagonista che tinge lo schermo quando il ricordo viene evocato. Il film è pieno di grandi intuizioni visive, Hitchcock ha fatto sperimentazioni coraggiose sul colore, oltre che sullo spazio da filmare; tutto questo insieme ha rappresentato qualcosa di potente che ha dato inizio alla mia dipendenza schizofrenica dal cinema.
La conseguenza prevedibile di questo tuo racconto sarebbe una carriera da regista… come hai scelto poi di convogliare questi stimoli “magnetici” in un lavoro nelle arti visive classiche?
Sono attratta dal cinema, come dalla letteratura, ma una cosa è l’entusiasmo, un’altra il talento – e anche le competenze – per poter trasformare una passione in una professione. Non mi ha mai sfiorato il pensiero che da grande avrei potuto fare fatto la regista o la scrittrice, mentre durante l’ultimo anno di accademia si è insinuata in me l’idea che il mio interesse per le arti visive potesse diventare un mestiere. Anche con la video arte ho avuto un rapporto controverso inizialmente, finché non ne ho compreso le specifiche linguistiche e che questo linguaggio mi avrebbe dato delle possibilità di sperimentazione.
Credo che l’arte non racconti la vita, ma l’esperienza di vita, cioè qualcosa di più complesso e articolato: quando uno lavora a un’immagine ci butta dentro tutto ciò che ha vissuto e sentito, ciò che ha visto e possiede e che culturalmente ha sperimentato. Destrutturare l’immagine è una pratica che mi accompagna da sempre e partire dal cinema non è diverso rispetto ad altri linguaggi. Per esempio nel progetto dedicato a Marnie ho voluto, tra le altre cose, rendere omaggio alla prima inquadratura del film, intervenendo sulla forma e la riconoscibilità della borsetta gialla: da una parte è negata come oggetto, dall’altra è enfatizzata come segno che l’obiettivo della macchina da presa isola sul fondo neutro.
Il tuo approccio al cinema e alle immagini che recuperi è in qualche maniera astratto e simbolico. Mira più al carattere assoluto, trascendente, di questi spezzoni che al loro valore meramente narrativo o citazionista. Lo dici spesso e l’episodio della borsetta forse può esserne l’esempio lampante. Quali sono, se dovessi individuarli, i temi e i simboli che evochi con questa pratica?
Se la missione dell’artista è quella di scoprire simboli, i maestri ci insegnano che la nostra grammatica può essere reinventata ogni giorno. Questa è una grande lezione che ci viene dall’arte e dalla cultura… confrontarci con il passato ci aiuta a nominare le cose e a fare chiarezza, almeno a tentare.
I temi che indago sono legati all’esperienza, agli incontri con persone e situazioni che mi coinvolgono emotivamente. Ti faccio qualche esempio: per molto tempo ho lavorato sull’infanzia, perché è nei primi anni di vita che si definiscono le basi dell’identità: temi come memoria e relazione con l’altro e con il mondo ritornano e visivamente si formalizzano attraverso la stratificazione, la trasparenza, l’esperienza del vuoto. Ho riflettuto molto sul concetto di limbo, uno spazio privo di coordinate spaziali e temporali nel quale ci muoviamo senza riferimenti e dove tutto può accadere, proprio come in una pagina bianca. Questo mi ha portato a confrontarmi con i temi del limite, muro, griglia, soglia: da qui sono nati i lavori sulla sagoma e i più recenti sul corpo (Pubblico dominio/Geografie umane che riprendono, il primo, sequenze di due film di Méliès e, il secondo, opere della storia dell’arte legate al tema del viaggio e dello spostamento), il vuoto e la corporeità, il margine e il tentativo di sconfinamento della vita che scorre. Sul concetto di vuoto mi frulla da sempre in testa una frase di Camille Claudel (che è anche una delle mie Madri): “C’è sempre qualcosa che mi manca”. Anch’io credo che l’arte sia una risposta a quello che ci manca, tenendo presente però che è la mancanza ad alimentare il desiderio.
Insegnamento dei maestri, padri e madri spirituali, citazionismo consapevole e non ironico. Lo definirei un parlare di se stessi utilizzando le parole e le immagini altrui, quindi ancora un’attitudine postmoderna, come dicevamo prima, ma declinata in un senso molto delicato e personale. Nel tuo caso, poi, la specificità penso che risieda nel fatto che questi rapporti con i giganti del passato non possano essere derubricati sotto il segno della semplice influenza estetica ma diventino parte essenziale del tuo lavoro. Lo dico in altri termini: è come se dichiarare il tuo debito o il tuo innamoramento estetico fosse già in sé opera, elemento linguistico. È così?
Sì, è possibile.
Intervista di Gabriele Salvaterra in occasione della mostra La terra e le fantasticherie, 2022, pubblicata sul catalogo monografico ARMIDA GANDINI edito da Skira e supportato da Fondazione Brescia Musei.