Armida Gandini mette in gioco la propensione artistica alla relazione, presente in buona parte del suo lavoro, mostrando con alcune sue installazioni mirate quella che l’ha vista coinvolta in vari modi e condizioni, col tempo ed in più occasioni, con la personalità di Piero Cavellini, indagando alcuni aspetti del suo lavoro di gallerista ed osservatore dell’arte per un quarantennio.
Oltre ad alcuni incontri artistici del passato tra i due autori, come Tra Manerbio e Pontevico (messaggi telefonici tra un viandante autostradale e la sua Editor) e la memoria specifica di una partecipazione comune al progetto Arte e Luogo attuato in Camerun e legato alle loro esperienze didattiche, il punto di partenza della mostra è un recente scambio di immagini e testi fornito per 57 giorni da Piero Cavellini ad Armida Gandini via web intitolato I REMEMBER. Una foto al giorno, come ricapitolazione e memoria di una buona parte dei propri trascorsi di gallerista, editore ed autore, che per l’occasione è divenuto un libro comune corredato da una corposa intervista e confronto di opinioni sull’arte tra i due (Piero Cavellini con Armida Gandini, I REMEMBER. Una foto al giorno, 2015, www.ilmiolibro.it).
Scavando nel ricordo del suo relatore Armida Gandini ne estrapola alcuni punti centrali che diventano opera in mostra, come la matrice dadaista e gli oggetti, libri ed edizioni appartenuti al suo vissuto nello specifico.
Spazio Contemporanea, Brescia
Un anno di reciproci messaggi telefonici con un viandante temporaneo alla ricerca di se stesso e dei propri luoghi interiori e non, inviati dal viaggiatore al passaggio tra due caselli autostradali che indicano il territorio dell’artista, prende ora forma pubblica come racconto esplicito di un’anima che si svela ed una che accoglie. Sono le epigrafi di questa relazione nata per gioco e proseguita per complicità. (P. C.)
Per un approfondimento vai al link: http://www.armidagandini.it/arte/wp-admin/post.php?post=413&action=edit
Se presso una biblioteca ci sarà un giardino nulla ci mancherà, sono parole di Marco Tullio Cicerone, le stesse scelte da Piero Cavellini come citazione di apertura del libro I REMEMBER Una foto al giorno. L’installazione riproduce nello spazio della galleria la condizione di “arresti domiciliari” narrata dall’autore e circoscritta al luogo della sua quotidianità, tra l’interno dello studio e l’esterno del giardino, in una dialettica forme della natura \ forme della cultura. Accoglie lo spettatore un muro di mattoni che intrappola nella sua rete alcune copie del libro prodotto in quella fase temporale ed emotiva, per poi aprire lo sguardo sulla prospettiva del giardino.
Il riferimento alla mostra Arte Ambiente, curata da Piero Cavellini nel 1976, viene attualizzato rielaborando immagini scaricate da Google Map dei giardini di Via Rebuffone in Brescia, che evidenziano l’assenza delle opere e l’impossibilità per lo spettatore odierno di fare degli incontri artistici.
Un omaggio a Sarenco con tre opere tratte dal progetto Gli sconosciuti di Brescia realizzato per la Galleria Nuovi Strumenti nel 2005, associate a tre lavori di Armida Gandini del 2012 che fanno parte della serie Storie di alter ego, tre lettere scritte, imbustate e spedite a tre personaggi letterari e ovviamente ritornate al mittente.
La passione di Piero Cavellini per l’Africa, incentivata dalla rivelazione della mostra Magiciens de la terre e dall’amicizia con Sarenco, è documentata dalla presenza di opere di artisti africani autoctoni, la senegalese Seni Awa Camara e il tanzaniano George Lilanga, che esprimono le realtà spirituali ed estetiche della propria terra in evoluzione.
Lo “studiolo” è stato pensato come un omaggio allo spazio dove le vicende della storia di Cavellini sono attestate dall’accumulo di oggetti, opere d’arte, libri, ricordi, pubblicazioni, cimeli, fotografie… una sorta di camera delle meraviglie da attraversare e da scoprire comodamente affossati nella poltrona rossa di Piero.
Nell’anno che celebra il centenario della nascita di Dada al Cabaret Voltaire, l’installazione Il y a cent ans Cabaret Voltaire omaggia lo spirito Dada, attraverso una serie di lavori molto diversi tra loro e raccolti in questa occasione per rimarcare la matrice dadaista dell’esperienza di Piero Cavellini nel corso degli anni della sua attività: dalla mostra degli Objects d’affection di Man Ray del 1982 al catalogo della Collezione Campiani, al progetto concepito in collaborazione con Antonio Faggiano, D’après Duchamp, e al lavoro di GAC (Autostoricizzazione, 1976). Completa la stanza un omaggio al film sperimentale di Man Ray Les Mystères du Château du Dé (BN, durata 19’47”, 1929), che riflette la passione di Gandini per il cinema e per il gioco della fatalità dei dadi (Dio non gioca a dadi, 2011). Tra le opere si distingue un ritratto di Hannah Höch di Gandini (Stampa Lux-Art, 60×60 cm), artista dadaista di nazionalità tedesca, pioniera del collage e del fotomontaggio, che appartiene al folto gruppo di donne del progetto Mi guardo fuori (2013) dove, attraverso un gioco di identificazione, sono celebrate figure fondamentali della cultura e della storia.
In buone mani
Da qualche anno il lavoro di Armida Gandini indaga il tema dell’incontro, fondamentale nella storia personale e culturale di ognuno di noi. Interessata a discorsi relativi al rapporto tra generazioni e all’eredità culturale, ha sviluppato un progetto in cui omaggia con un semplice gesto di una carezza le figure dei padri spirituali che sono stati importanti punti di riferimento durante la sua formazione e per il suo lavoro artistico. Accanto ai ritratti un surrogato di sedia si sostiene grazie alla pila di libri scritti da Piero Cavellini che costituiscono una base di riferimento a cui appoggiarsi.
Intervista di Giampietro Guiotto per l’articolo del 26.05.2016 pubblicato sul BRESCIAOGGI
E’ una mostra differente da quelle consuete questa dell’artista Armida Gandini, perché interessa la relazione tra l’artista e Piero, figlio di Guglielmo Achille Cavellini. Questa ampia esposizione è accompagnata dalla pubblicazione di I REMEMBER Una foto al giorno, 2015, www.ilmiolibro.it, un volume di immagini e scritto a quattro mani che mostra la propensione dell’artista alla relazione interpersonale e alla funzione dell’arte, intesa come meccanismo d’allarme sociale, sprofondamento intimista, narrazione, ma soprattutto ascolto dell’altro nel quotidiano. Ad accogliere il visitatore della mostra, un imponente muro, simbolo divisorio tra pubblico e privato, perché al di là di esso si apre un angolo di verde con piante prestate da amici e un tavolo di cristallo, con la scritta di Marco Tullio Cicerone, che dice: “Se presso una biblioteca ci sarà un giardino, nulla ci mancherà”. Letteratura, vitalità della natura ed arte del bello si intersecano qui, ad indicare un colloquio tra le arti e tra gli artisti.
G. G. Questa intersezione è valida e stimolante anche oggi?
A. G. In quest’epoca della complessità ritengo di sì, sia per quanto riguarda la contaminazione tra i generi e le discipline, sia per quanto concerne un lavoro di collaborazione tra gli artisti.
G. G. Come nasce l’idea della mostra?
A. G. La mostra è frutto della relazione affettiva e professionale con Piero Cavellini. Nell’ultimo anno in particolare ci siamo frequentati con assiduità per via del libro che abbiamo scritto in collaborazione, che racconta la storia della lunga attività di Cavellini come gallerista, autore, editore e osservatore dell’arte. La mostra può essere letta come atto finale di questo percorso che dalla carta stampata si materializza nello spazio della galleria.
G. G. Le opere in mostra coprono però un arco di tempo più ampio…
A. G. Come scrive Piero nel libro “la coppia è collaudata”. Nel 2008 ho coinvolto la sua nipotina Chiara come protagonista di un mio video e da quel lavoro sono partite altre collaborazioni: un’esperienza in Africa, la partecipazione comune ad una mostra di Salvatore Falci, uno scambio di messaggi telefonici formalizzati in un progetto “Tra Manerbio e Pontevico”. Inoltre, Piero è tra i miei maestri e quindi presente nella carrellata dei padri spirituali del progetto In buone mani, in cui omaggio con il gesto di una carezza quelle figure che sono importanti punti di riferimento per me e per il mio lavoro.
G. G. Nel tuo lavoro è frequente la propensione all’aspetto relazionale: che cosa significa interagire con l’altro e con l’arte?
A. G. La questione è complessa, perché credo che l’approssimarsi all’altro sia un processo lento e impegnativo che non si può dare per scontato, ma che si costruisce giorno dopo giorno, prendendosi cura e aprendosi all’imprevisto di ciò che possiamo scoprire dell’universo dell’altro.
G. G. C’è un velo di malinconia che aleggia in mostra? Forse perché l’arte ci parla di quello che ci manca?
A. G. Forse, perché l’arte è anche una risposta a quello che ci manca, tenendo presente però che è la mancanza ad alimentare il desiderio.