di Fausto Lorenzi
Irretire, catturare fisionomie, voci, ombre, sogni, favole. Armida Gandini da anni lavora sul corpo che ha perduto il senso della sua globalità e resta come ingombro, traccia, impronta, vibrazione, desiderio, onda psichica. Il corpo che si disperde nella folla, che va alla deriva nella vita quotidiana. Si è aggirata attorno al corpo – al calco del corpo, magari di un suo frammento – come a un fardello scaricato dalla storia dell’arte, dalla fotografia, da giornali e riviste, ma anche dall’ingombro di parenti, amici, conoscenti, persone incontrate per strada. Sono nati così discorsi sulle forme sociali del nascere e del morire, del bene e del male, del desiderio e dell’amore.
Ora al centro del suo interesse è il corpo della favola. E’ anche il corpo dell’infanzia, che si dilata e viene a coincidere col mondo, che crede che altro non sia che un’estensione delle proprie braccia e gambe, da reinventare a piacimento. E infatti Armida Gandini fa coincidere il suo corpo con la natura, il bosco delle favole, attraverso l’accumulo di occasioni e memorie finissime, foto della propria crescita personale, degli incontri, dei desideri che le favole si avverassero.
Diventa l’addentrarsi in un ritmo generale dell’esistenza, nella sensibilità che custodisce tutto ciò che alimenta una vita nel mondo. E’ come se le figure del proprio vissuto si facessero avanti dal corso naturale del mondo, come creature di una verità eterna. Così decanta la materia calda e dolente della propria esistenza, sottrae le figure ad ogni psicologia: le assimila a un’esperienza, all’asciutta ineluttabilità del racconto favoloso. L’arte torna così a scrittura generativa del mondo, di cui offre una simbolizzazione primaria. Azioni e funzioni come nelle favole, in una topologia mitica.
Il bosco è infatti il luogo dell’iniziazione alle forze primordiali della vita. Lo sappiamo fin da piccolissimi, da quando ci raccontano la storia di Cappuccetto Rosso, che i boschi sono pieni di simboli, dove si attinge un linguaggio di solidarietà fra la moltitudine di forze vitali e gli uomini, che qui hanno maturato le tecniche primarie della sopravvivenza.
Il bosco delle favole vuol restituire uno spazio fatale d’incantesimo, nell’ordine progettuale, astratto, di un’installazione in contatto sensoriale, emotivo, con l’esperienza del mondo. In fondo, gli enigmi che pongono le favole sono semplici, legati alla trama stessa dell’esistenza: il tempo sospeso delle favole diventa il tempo sospeso dello sguardo, che riconosce nella storia individuale le tappe d’una iniziazione alle leggi eterne della vita e della natura.
L’assenza della natura, come compagna costante della nostra vita quotidiana, l’avvertiamo non tanto come distruzione del paesaggio tradizionale, quanto come solitudine, esilio, come se la natura stessa non fosse piu’ la patria dell’uomo. Armida nel suo bosco sembra mettersi dal punto di vista dei romantici, che potevano trasfondere la loro interiorità nel paesaggio, sentito come luogo di misurazione del rapporto tra l’individuo e l’universo. Ma ora è la misura di una distanza, perché tutto si dilegua, le voci incontrate per strada come le voci di dentro. E’ il dialogo steso tra fotografia monocroma, solo ombra, e fotografia a colori, materia concreta in cui si rapprende la luce.
FAUSTO LORENZI, testo critico, catalogo Giovani presenze, Galleria AAB, Brescia, 2000