di Roberto Borghi
Per gli antichi è segno dell’informe, metafora del primordiale, corrispettivo del magma originario. Il bosco per i greci è hylem, per i latini silva, ovvero dimensione sorgiva, fonte degli eventi primari, bacino degli accadimenti iniziali. Il bosco, insomma, è il luogo per antonomasia del mito, di quel ‘racconto dell’origine’, come recita il suo significato etimologico, che una lunga tradizione di pensiero fa scaturire dalla categoria psicologica e cronologica dell’infanzia.
Armida Gandini ha scelto questo luogo come habitat delle sue più recenti opere. Si tratta di una ‘selva’ in cui l’informe dell’origine viene plasmato dalla forma della memoria che, depositandosi su di esso, gli dona letteralmente una nuova luce.
Alla visione archetipica e universale dell’infanzia emblematizzata dal bosco, Armida Gandini sovrappone la propria versione quotidiana e particolare: questo assemblaggio di elementi analoghi e contraddittori genera un racconto paradossale, una narrazione che oscilla fra il paradigma mitico della fabula e il dettaglio della fiaba. Il tempo dell’infanzia (la fiaba) è compendiato dalle frasi sovrimpresse alle immagini: brevi periodi declinati rigorosamente al presente, espressioni linguistiche dal tono descrittivo e dal senso allusivo. L’infanzia del tempo (il mito) traspare dal fondo dell’opera, evocando una dimensione remota, un contesto cronologico fluido, suggerito con estrema delicatezza da una sottile osmosi visiva.
Il bosco, per i moderni, e in particolare per il pensatore che sulla modernità ha pronunciato forse le parole più significative, è Lichtung, ovvero, nella sua accezione primaria, ‘radura’, boscaglia che si dirada e lascia quindi filtrare la luce. Per Heidegger questo luogo in cui il chiarore penetra da una direzione trasversale e assume gradazioni molteplici è una metafora dell’opera d’arte che, nel suo tentativo di sottrarre la verità dal buio della non conoscenza, si limita tuttavia a “gettare fasci luminosi obliqui sull’essere”. Armida Gandini traduce quasi alla lettera questa asserzione heideggeriana. Nelle sue opere il bosco è una dimensione in cui la luce rischiara, ma non chiarisce il senso degli eventi rappresentati. La fonte che emette questa luminosità anomala è la memoria che, nel suo esplicarsi, vela gli accadimenti di una patina lucente ma offuscata.
Se è vero che, nel ricordo, il tempo ritorna con un’aggiunta di senso, in queste immagini il significato sembra proprio consistere nella loro incompleta chiarezza, nel bagliore non del tutto terso che le caratterizza. Nella qualità luminosa degli sfondi c’è inoltre un tono elegiaco che si somma a quello enigmatico presente nelle frasi collocate in primo piano. La memoria accusa una sorta di vuoto, un conato malinconico, uno spaesamento di fronte a se stessa, al suo rendersi visibile. Nel bosco, d’altra parte, come raccontano le favole, è quasi impossibile che non ci si perda.
Testo critico di Roberto Borghi per la mostra I luoghi della memoria presso Fabio Paris Artgallery, Brescia, 2001