di Melania Gazzotti
D: Da cosa è partita la tua ricerca artistica?
R: Credo che fin dall’inizio abbia prevalso la riflessione sull’identità nel confronto e dialogo con l’esterno. Un tentativo di relazione, scambio; tentativo di messa a fuoco e definizione. Un modo per confrontarsi con il mondo, ma anche con se stessi e il proprio vissuto.
Se ti riferisci all’ultimo lavoro è un’evoluzione del Bosco delle fiabe e ciò che mi interessava mostrare in quel percorso era un campionario di umanità, di persone comuni che alla fine escono dall’anonimato anche solo perché qualcuno ha posato su di essi il suo sguardo. Personaggi della vita, tratti da album di famiglia miei, di amici e parenti, emergevano da un fondo comune e, identificandosi con personaggi della fiaba, diventavano rappresentativi di un determinato stato dell’uomo. Mi interessano gli uomini, le persone, le loro reazioni interiori, i loro gesti.
Ora sto lavorando sulla negazione, una forma di autodifesa, come se attraverso la negazione si affermasse la propria identità e difendere il proprio spazio non significhi per forza invadere lo spazio degli altri.
D: Ci sono stati degli incontri anche solo “virtuali” che hanno influenzato le tue scelte artistiche?
R: Diciamo che m’innamoro facilmente. I miei incontri sono stati molto concreti, nel senso che mi lascio coinvolgere con molta partecipazione.
E spaziano dal cinema, alla letteratura, all’architettura, che in modo diverso sono presenti nei miei lavori. Potrei fare degli esempi citando il cinema francese e in particolare Eric Rohmer che mi ha trasmesso il gusto per il quotidiano e per la serialità; Dostoevskij, al quale ho dedicato un omaggio con L’idiota dimenticato (un’installazione per Villa Glisenti all’interno della mostra Lampi Grevi) una riflessione sul rapporto forme della natura forme della cultura e sul rischio della perdita della bellezza nel dimenticare entrambe.
L’architettura contemporanea mi ha ispirato invece una serie di lavori sul museo, come luogo di appartenenza e nello stesso tempo di disorientamento, di perdita e di ritrovamento attraverso il filtro dell’arte.
D: Da dove provengono gli elementi che compongono le tue opere dal tuo universo personale o dall’esterno?
R: Io preferisco partire dalla mia esperienza, usando un filtro personale e intimo per parlare di cose che hanno un respiro più vasto.
La relazione con l’esterno è inevitabile, ma lo sguardo sulla cronaca non è sufficiente, così come non è sufficiente il fatto contingente. Mi interessa l’idea dell’arte come testimone di un’epoca, ma nello stesso tempo credo che non ci si debba sforzare di essere i cronisti della contemporaneità, perché lo si è per principio. Certo il mio sguardo sul mondo è limitato a ciò che conosco, ma forse è un modo per costruire in modo più autentico le mie visioni.
D: Che significato hanno i bambini e l’infanzia nei tuoi lavori?
R: Una riflessione sull’identità ci porta inevitabilmente a prendere in considerazione il nostro passato; il mio percorso a ritroso non è nostalgia per l’infanzia, ma viaggio tra le immagini della memoria, che gradatamente riaffiorano in superficie per cercare una definizione nel presente. Organizzarle attraverso un linguaggio significa tentare di dare forma ad una successione di pagine stratificate nella memoria, ed è per questo che utilizzo nei miei lavori più livelli: un livello più profondo, rappresentato nel lavoro da un’immagine in secondo piano che funge da scenografia alle azioni dell’esistenza, uno strato successivo che narra l’episodio del vissuto personale, un terzo livello costituito da un breve frammento di testo, una sorta di titolo che trasferisce l’esperienza soggettiva in una dimensione più generale.
Inoltre m’interessano le situazioni aperte, in movimento, e quelle dell’infanzia e dell’adolescenza sono fasi caratterizzate da esperienze decisive, ma in evoluzione, dove tutto è ancora possibile. I miei personaggi non sono passivi, compiono delle azioni a livello psicologico, maturano delle scelte oppure prendono coscienza della loro situazione.
D: Ho sempre trovato i tuoi lavori estremamente poetici e vicini a una sensibilità delicata e femminile, ma forse non sono cosi ingenui come sembrano, qual è il messaggio ultimo che vuoi trasmettere?
R: Da una parte mi oppongo alla separazione arte al maschile/arte al femminile cercando il confronto con l’artista in generale, dall’altra mi rendo conto che, intensificandosi la presenza delle donne sulla scena artistica, si sia duplicato il punto di vista; ma non è detto che la leggerezza, la sospensione, il tratto volutamente infantile siano per forza prerogative di una ricerca al femminile.
Nonostante l’essenzialità delle forme, o forse per questo, mi rendo conto che il risultato non sia sempre immediato; volutamente i miei lavori non sono descrittivi e il testo scritto che li accompagna non ha il significato di chiarire il senso dell’immagine. Mi è difficile sintetizzare in un’espressione l’obiettivo del mio lavoro, cerco di evocare delle situazioni che ruotano attorno all’uomo, spero che possano scattare negli spettatori meccanismi di identificazione.
Intervista di Melania Gazzotti per la rivista AB 74, primavera 2003