di Marco Nember
D: Perché hai scelto di far comparire la tua protagonista all’interno di un indeterminato spazio bianco?
R: Perché è uno spazio metaforico, non contestualizzato nel tempo e nello spazio; il limbo e’ una pagina bianca dove tutto può essere scritto e dove tutto può succedere, come nella vita…
D: L’iniziale fastidio della ragazza nei confronti degli agenti esterni sfocia in una vera e propria angoscia (paura?) che la porta istintivamente a proteggersi. Il suo senso d’abbandono non appare in ogni caso attenuato, anzi provoca un senso di straniamento nello spettatore dovuto al fatto che la tua protagonista pare non abbia alcuna intenzione di muoversi, solo ripararsi.
R: In un luogo privo di coordinate spaziali, la fuga risulterebbe inutile: ovunque si vada mancano i punti di riferimento grazie ai quali orientarsi e, scappando, la nostra condizione non cambierebbe perché non esiste un altrove, oltre il bianco c’è il bianco. La protagonista di questa avventura avverte che qualcosa sta per accadere ancora prima che si manifesti visivamente, non appare sorpresa, ma all’erta, si guarda attorno con uno sguardo di circospezione… come se sentisse l’ineluttabilità di ciò che può avvenire e si mettesse in gioco. Ma se il gioco diventa pericoloso e’ necessario imparare a schermarsi e ognuno di noi, di fronte alle esperienze della vita, innesca dei meccanismi di autodifesa e protezione; il cappottino del finale e’ una corazza, ma anche una seconda pelle, la traccia del vissuto che costruisce la nostra identità.
D: La rappresentazione degli stati di passaggio nella vita umana è una costante della tua opera. In questo caso poni particolare attenzione ai sensi, soprattutto al contatto. In “Noli me tangere” il contatto è in un certo qual modo prima repellente e poi portatore di pericolo. Ma la ragazza ritorna sul “luogo del delitto”. Il contatto ha assunto il valore di una crescita morale, dell’abbattimento di un tabù (il non essere toccati ovvero la propria “intoccabilitá”)?
R: Il pensiero che niente ci tocchi è solo un’illusione: noi siamo gli incontri che facciamo, le relazioni che stabiliamo con il mondo. Ma il contatto con le cose non è sempre piacevole; dal bianco immacolato del limbo può arrivare di tutto: il fastidio, la minaccia, l’ostilità, la sofferenza, il dolore… e non ci si può sempre sottrarre. Forse per questo la ragazza ritorna sul ‘luogo del delitto’, anche perché si sente scoperta, vulnerabile, impotente… e che si scaglino contro e poi si vedrà.
D: Il riferimento ad Hitchcock nella modalità estetica con cui hai realizzato l’attacco degli uccelli alla tua protagonista è lampante. Perché hai scelto di citare e re-interpretare The Birds anche nell’uso degli effetti speciali ed applicarlo alla tua opera?
R: Il cinema è la mia grande passione, la mia via di fuga in una dimensione di intoccabilità. Hitchcock è stato l’artefice di questo innamoramento, aprendomi un mondo quando vidi da bambina Marnie, interpretato da Tippi Hedren, che poi è la stessa protagonista de Gli Uccelli. Di questo film mi piace il fatto che il pericolo venga da uccelli comuni, non da uccelli da preda, come dire che bisogna far attenzione rispetto a ciò che è quotidiano, familiare, e che gli attacchi diventino sempre più pesanti. Ma soprattutto, che il film sia chiaramente una costruzione intellettuale, una metafora. Per quanto riguarda il linguaggio mi ha proprio affascinata la sigla di apertura (Hitchcock èun grande talento anche in questo) e l’idea di poterla simulare con l’animazione èstata una bella sfida.
D: Gli elementi grafici che interagiscono nel video danno il senso della dimensione mentale del tuo racconto, appaiono sullo schermo come fossero pennellate nate per custodire un segreto.
Hai scelto di chiudere l’opera con un’inquadratura fissa, in cui la tua protagonista appare ancora una volta in campo bianco coperta da un cappottino disegnatole addosso. Cosa sta aspettando adesso?
R: Si aspetta altre avventure, altri uccelli, ma potrebbero essere dei lupi o delle pantere. Non è importante ciò che succederà, importante è la condizione di attesa e di incontro nella quale la ragazza si trova, simile a quella precedente, ma con un po’ più d’esperienza. Mi viene in mente quando ero bambina e mi accompagnava un senso di inadeguatezza: le cose nuove mi sembravano grandi e insormontabili e mio papà cercava di consolarmi dicendo che anch’io ero diventata più grande per affrontarle… Mi piace questa idea ciclica del camminare per ritornare allo stesso punto di partenza, ogni volta con qualcosa in più.
D: In “Touch me” il contatto si trasforma invece in qualcosa di fortemente desiderato. La tua opera porta a riflettere sui motivi che portano un bisogno innato ad essere negato. Perché hai scelto di non illustrare le conseguenze di questo rifiuto, ma solo di mostrarne la crudeltà?
R: In genere il mio lavoro pone domande senza dare risposte o indicazioni. Secondo me andare all’origine delle cose significa cercare di prenderne consapevolezza: le conseguenze della mancanza d’amore si manifestano diversamente, ognuno di noi reagisce innescando meccanismi di difesa che non possono essere generalizzati e io non voglio mostrare situazioni particolari e definite, ma aperte.
D: “Noli me tangere” e “Touch me” raccontano due universi paralleli, realtà al di qua e al di là di uno specchio. Cosa li fa nascere affiancati, dov’è il loro punto d’incontro?
R: M’interessa l’altra faccia della medaglia, la possibilità di guardare la stessa cosa da prospettive diverse, perché indica apertura, confronto. La paura di essere toccati con tracce indelebili dagli eventi della vita implica anche il suo opposto, il bisogno del contatto inteso come corrispondenza amorosa. Se in Noli me tangere la ragazza si scherma per proteggersi, in Touch me la bimba tocca per essere toccata, per far sentire la sua presenza e l’urgenza di essere amata. Nulla nutre come l’amore, nulla devasta come il disamore. Il suo tentativo è quello di smuovere dall’indifferenza, perché attraverso il gesto del toccare può nascere uno scambio, una relazione.
Intervista di Marco Nember in occasione della presentazione del video Noli me tangere, 2007
Noli me tangere
by Marco Nember
Armida Gandini selected the concurrent showing of two of her videos for l’Ozio: Noli me tangere (2007) and Touch me (2007).
Both works recall a specific dimension of touching and of being touched, developing Armida’s reflections of significant aspects of personal growth during the critical phases of childhood and youth in a unique and effective way. The artist widened the universe represented in the videos by introducing plexiglas hemispheres (Noli me tangere) and drawings on paper (Touch me). This allows for a deeper understanding of both her artistic and personal development.
In Noli me tangere the main character appears in an indefinite white space. The initial girl’s bother from the external agents results in a real distress (fright?) that instinctively drives her to protect herself. Her feeling of neglect does not seem to weaken, on the contrary, it causes the alienation of the audience because the main character does not seem willing to move, but only to protect herself.
In a place without spatial coordinates, the flight would be useless: wherever you go you would lack the reference point needed to get oriented. By running away, our status would not change because the elsewhere does not exist; after white there is white. The main character of this story feels that something is just about to happen prior to it occurring. She does not seem surprised, but wary. She looks around with circumspect …..as if she could feel the inevitability of what is about to happen and she comes into play. But if the game becomes dangerous it is necessary to learn how to protect ourselves. Each of us, in the face of life’s experiences, develops defence and protective mechanisms; at the end the coat represents a shell, but also a second skin, the mark of the past that develops our identity.
The representation of the shift in the stages of life is recurrent in all your work. You put particular attention on the senses, and specifically on touch. In “Noli me tangere” the touch is somehow repulsive at first and then the carrier of danger. However the girl goes back to the “scene of the crime”. Does touch assume the merit of moral growth, the defeat of a taboo (being untouched or rather our own “untouchability”)?
The thought that nothing could touch us is only an illusion: we are the people we meet, the relations that we establish with the world.
But contact is not always pleasant; anything could come from the spotless white of limbo: the inconvenience, the threat, the hostility, the suffering, the pain….and you cannot always avoid it.
It is probably because of these that the girl goes back to the “scene of the crime”, also because she feels revealed, vulnerable, powerless…..let them reveal themselves and then we will see.
There is a clear reference to Hitchcock in the way you carried out the birds’ assault on the main character. Why did you decide to mention and revisit “The Birds”, including in the use of special effects and to apply it in your work?
Film is my biggest passion. It is my way of escaping to a dimension of “untouchability”. Hitchcock is the author of my enthrallment. He introduced me to a new world when I was a child through Marnie, acted by Tipi Hedren, who in the end is the same main character of “The birds”. In this movie I particularly like the fact that danger comes from ordinary birds, not from birds of prey, meaning that we need to be aware of everyday life events, and that the attacks become more and more serious. But above all, I like that the movie is clearly an intellectual work, a metaphor.
The graphic elements which interact in the video transfer the mental dimension of your story, they seem like brush-strokes born to guard a secret. You decided to end your work with a still frame, in which your main character appears again with a white background and covered by a coat drawn over her. What is she waiting for now?
She is waiting for other adventures, other birds, but they could be wolves or panthers. What will happen is irrelevant, but what is relevant is the state of waiting and encounter that the girl finds her herself in, similar to the previous state, but with more experience. I recall when I was a child and I experienced feelings of inadequacy: new things seemed big and insurmountable and my dad tried to cheer me up by saying that even I had grown to face them…..I like this cyclical idea of walking to get back to the starting point, every time with something more.
In “Touch me” the contact is transformed in something that is strongly longed for. Your work leads one to reflect on the reasons behind the denial of an innate need. Why did you decide to not show the consequences of this denial, and to only show its cruelty?
In general, my work asks questions without giving answers or suggestions. For me going to the roots of things means trying to become aware of it: the consequences of the lack of love reveal themselves differently. Each of us reacts by trigging defence mechanisms that cannot be generalized and I do not want to depict specific and defined situations, but open ones.
“Noli me Tangere” and “Touch me” talk about two parallel universes, situations on both sides of the mirror.
What allows them to be born side by side? Where is their meeting point?
I am interested in the other side of the coin, the opportunity to look at the same thing from different perspectives; because it expresses broadmindedness, confrontation. The fear of being affected by inerasable marks of life’s events also implies its opposite, the need of contact interpreted as mutual love. If in Noli me tangere the girl screens herself for protection, in Touch me the child touches in order to be touched, in order to show her presence and her need to be loved. Nothing nourishes like love, nothing is as devastating as to be unloved. Her intent is to shift from the indifference, because an interaction and a relation could be born through the touching gesture.