Intervista di Laura Fanti per la rivista Espoarte #54
D: Sei di ritorno da Città Sant’Angelo, dove hai svolto un laboratorio con bambini, Il gioco della torre, ci vuoi raccontare come è andata?
R: L’attività didattica rientrava nella manifestazione Godart, e quando Enzo De Leonibus che dirige il Museo Laboratorio, mi ha proposto di lavorare nel reparto psichiatrico dell’ospedale, ho accolto con piacere l’occasione di vivere un’esperienza in un ambito per me nuovo. L’obiettivo consisteva nel creare un dialogo tra i bambini e i pazienti, facendoli incontrare sul piano della relazione e del contatto. La torre del titolo è una metafora della malattia: all’interno ci sono degli uomini e delle donne che vibrano, soffrono, si bloccano dentro le loro emozioni/ossessioni. I bambini hanno costruito metri e metri di trecce rosse, divenute prolungamenti dei loro corpi, nel tentativo di uscire da sé stessi, superare i confini della torre e smuovere, provocare una risposta. Sostanzialmente si è trattato di una riflessione sul tema dell’amore come garanzia di cura, che io stavo sviluppando nel lavoro Touch me. In questo video e nei disegni che ne derivano, la bimba tocca per essere toccata, per far sentire la sua presenza e l’urgenza della corrispondenza amorosa.
D: Trovo molto bella la tua riflessione sull’amore come garanzia di cura, soprattutto perché non parli di possibilità ma di garanzia, di certezza, quindi prendi come punto fermo qualcosa di apparentemente sradicato e immateriale, non appartenente e non riconducibile a canoni come l’amore. Da qui il tuo lavoro non procede in modo interrogativo ma “costruttivo”, e anche stavolta la tua posizione mi sembra inconsueta rispetto al panorama abituale, mi sbaglio?
R: Il confronto con i pazienti del reparto psichiatrico mi ha confermato come la ferita che deriva dall’abbandono e dalla paura di non essere amati sia devastante perchè genera dissociazione. Questa è una strategia che ognuno di noi adotta, in modo più o meno marcato, per difendersi dal dolore del non amore, la chiusura all’amore stesso. Per questo credo sia importante sforzarsi di imparare un atteggiamento costruttivo, in generale, nella vita come nell’arte. L’arte in fondo contiene in sé il principio del fare e del costruire, in forme molto diverse, d’accordo, ma con l’obiettivo di muovere delle energie; che serva realmente a qualcosa? beh, questo non lo so… spero sempre che si inneschi un meccanismo di comunicazione.
D: D’altra parte l’infanzia è uno sfondo costante del tuo lavoro, e molte volte ti vengono rivolte domande su questo punto… stavolta vorrei chiederti come ricordi la tua.
R: Come una fase di grande vitalità ed energia: ricordo me stessa come una bambina curiosa del mondo, delle cose, ma nello stesso tempo attenta al rapporto con le persone, riflessiva… In fondo il filo rosso del mio lavoro è la continua ricerca della relazione con l’altro, attraverso uno sguardo interiore che si proietta verso l’esterno, ampliandone gli orizzonti, le prospettive.
D: Noto che nel tuo lavoro l’infanzia assume caratteri molto diversi da quelli ricorrenti nell’opera d’arte contemporanea: non si evince morbosità, inquietudine, senso di non-finito, di embrionale, ma una sorta di capovolgimento, come se i mondi paralleli dei bambini sono in realtà la redenzione del nostro tempo, una specie di catarsi…
R: La mia è stata fondamentalmente un’infanzia normale, simile a quella di tanti altri bambini cresciuti in una famiglia non abbiente di provincia degli anni ’70. Non che quelli non fossero anni di grandi rivoluzioni, sia in ambito sociale che politico (ricordo perfettamente quando in quinta elementare la maestra annunciò alla classe il sequestro di Aldo Moro e come in seguito mi interessai al caso seguendo giorno dopo giorno le cronache televisive), ma tutto era vissuto attraverso un filtro che attutiva l’esperienza concreta. In realtà lavorare sull’infanzia non significa per me indagare un mondo parallelo a quello degli adulti, mostrandolo per contrapposizione. Non è un atteggiamento nostalgico di chiusura malinconica nel passato, ma un modo per andare alla ricerca di quelle radici che sono alla base della costruzione dell’identità, in una fase fondamentale in cui tutto è contemporaneamente già scritto e in divenire. In questo si gioca lo scarto che fa la differenza: il bambino è lo specchio dell’adulto, ma con maggiori possibilità di redenzione, per usare una tua parola…
D: Questo non significa che la tua visione sia scevra da problemi, anzi, hai sollevato più volte questioni come l’incomunicabilità e il desiderio di contatto (come in Campane di vetro e in Touch me). Tuttavia quando l’inquietudine, il tormento, l’isolamento attraversa il tuo lavoro, avviene in modo molto delicato, anche a livello tecnico, il tuo disegno, la tua linea, il tempo e lo spazio che attraversano i tuoi lavori sono sempre apparentemente leggeri, sospesi. Ci puoi dire qualcosa in proposito?
R: Mi rendo conto che il mio lavoro sia aperto a diverse chiavi di lettura, perché io non amo rappresentare, ma riflettere su delle situazioni giocando anche sull’ambiguità dell’immagine. E’ un modo per non dare risposte assolute, di prendere delle posizioni che riconoscano il beneficio del dubbio. Credo che dal punto di vista tecnico io abbia bisogno di far riferimento ad un linguaggio che superi il contingente: la realtà può essere più intensa nel momento in cui la si evoca rispetto a quando la si urla a squarciagola. Pensa a Campane di vetro per esempio, il tema dell’incomunicabilità è implicito nell’oggetto della calotta di plexiglas che ho utilizzato, non avevo bisogno di gesti teatrali per esprimere il senso di claustrofobia e isolamento che vivono i bambini quando si creano delle barriere rispetto al mondo che li circonda. Forse Noli me tangere potrebbe apparire come un lavoro più forte, così costruito sulla progressione del nero, del pericolo che diventa sempre più incombente e angosciante; ma nello stesso tempo tutto è realizzato metaforicamente come se si trattasse di un’avventura più mentale che fisica, che presuppone un’apertura nel finale.
D: Interessante questa tua osservazione sull’assenza di teatralità nel tuo lavoro [quando parli di Campane di vetro e del messaggio implicito di claustrofobia] nel senso di assenza di riferimenti urlati che rischiano di diventare gesti ostensivi. Questo nonostante tu ti serva molto del video; cosa è che ti fa scegliere questo medium al posto di una fotografia, di un collage o di altro? Forse l’idea della progressione alla quale hai accennato? della crescita dell’attesa nello spettatore? O cos’altro?
R: Mi piace molto l’idea della dilatazione temporale dell’immagine e questo deriva certamente dalla mia ossessione per il cinema, seducente e ipnotico come nessun altro luogo di evasione. Lo scorrere del tempo alimenta la crescita dell’attesa, la sospensione, ma anche il compiersi dell’azione in una dimensione ciclica. Forse è proprio questo l’aspetto che mi interessa maggiormente del linguaggio video, la possibilità di un ritorno dell’immagine alla situazione di partenza: e questo fin dal mio primo lavoro, Cedi? non cedo, che era costruito sulla ripetizione della medesima sequenza (un film 8 amatoriale nel quale due bambini fingono di litigare giocando, ma rischiando di picchiarsi sul serio), alla quale ho scelto semplicemente di aggiungere il titolo in sovrimpressione e il rumore del vecchio proiettore, di cui mi sono servita per riversare la pellicola in formato digitale. Volevo anche aggiungere che in genere mi piace affrontare i progetti sui quali sto lavorando da diversi punti di vista, per cui l’utilizzo del video normalmente si accompagna alla realizzazione di fotografie e disegni.
D: Ultima domanda d’obbligo! Cosa hai in programma per i prossimi mesi? Pensi di lavorare più su progetti a lungo termine o su singoli eventi?
R: Sto lavorando a progetti paralleli, alcuni dei quali nascono dalla relazione con il lavoro di altri artisti e quindi si svilupperanno nel tempo; altri più individuali hanno come obiettivo una mostra personale nel prossimo autunno.
Intervista di Laura Fanti per la rivista Espoarte, Agosto/Settembre 2008