intervista di Anna Lisa Ghirardi per Espoarte #86
Nella pianura padana – tra Brescia e Cremona – in un piccolo paese, Verolanuova, incontro, per la prima volta all’interno del suo studio, l’artista Armida Gandini. Il borgo fu fondato dagli Ungari e conobbe il suo splendore in epoca rinascimentale, come ben si vede dal maestoso palazzo comunale cinquecentesco, un tempo di proprietà della famiglia Gambara, e dalla grande piazza di impostazione tipicamente veneta. Vanto verolese, come mi ricorda Armida, sono invero i grandi teleri, Sacrificio di Melchisedech e La caduta della manna, che Giambattista Tiepolo dipinse con magistrale virtuosismo attorno al 1740-42 per la cappella del Sacramento della Basilica di San Lorenzo. Poco lontano dalla chiesa parrocchiale, inglobata nel nucleo urbano, è situata la cascina, restaurata in veste moderna dall’architetto Mario Galperti – marito dell’artista – che custodisce lo studio di Armida.
Con il garbo che la contraddistingue, Armida mi apre la porta al numero 3. Indossa un abito fiorato di un verde muschio che si riflette nel colore dei suoi occhi. Un abito vintage di stile inglese. Mi sorride, mi abbraccia e mi accoglie nella sua dimora. Davanti all’ingresso si apre una piccola corte e mi addentro in un luogo dove gli oggetti attraversano letteratura, cinema, arte, percorrendo viaggi che sconfinano le mure domestiche. Il tè delle cinque, che come quello di Alice non verrà mai versato, è accompagnato da un’appassionata chiacchierata che ci porta sino a sera.
D: Il tuo studio è custodito nel cuore della tua casa. Come è nato il progetto di ristrutturazione di questa cascina?
R: Il bisogno iniziale di avere uno studio accanto alla casa ha influenzato il progetto generale, dettandone lo schema. Perché se è vero che lo studio è il cuore della casa da un lato, dall’altro ha un suo spazio indipendente. La struttura della cascina è stata mantenuta integra nei volumi, non nelle finiture volutamente non tradizionali. Lo studio in particolare sfrutta la doppia altezza dell’ex fienile, ora schermato da una grande vetrata che guarda sul cortile interno. Insieme, io e Mario, abbiamo deciso per un intervento contemporaneo (pavimenti di cemento, scale e accessori in ferro), realizzato in collaborazione con artigiani locali che poi sono gli stessi con cui costruisco le mie opere e che mi forniscono i materiali per le installazioni.
D: Come utilizzi gli spazi del tuo studio per creare la tua opera?
R: Lavorando con linguaggi diversi, che spaziano dal disegno alla video installazione, entro ogni volta in studio con un atteggiamento mirato, ci sono periodi per esempio nei quali passo intere giornate a disegnare oppure intere giornate al computer.
D: La grande vetrata del tuo studio mi ricorda in senso traslato il titolo dell’opera Mi guardo fuori che ha vinto il Visible White di Celeste Network e Fondazione Studio Marangoni. Cosa vuol dire per te guardare fuori?
R: Il rapporto con il mondo è un rapporto con l’altro, qualcuno non solo estraneo al nostro essere, ma addirittura lontano nel tempo e nello spazio. Eppure in relazione con noi. Mi guardo fuori è un lavoro sull’autoritratto per interposta persona. Le protagoniste della serie sono donne dell’arte o della cultura, donne diversamente feconde che con la loro vita hanno lasciato un segno. La vetrata dello studio è un confine trasparente che apre lo sguardo alle persone che ci vengono incontro e che noi scegliamo, per affinità o empatia, perché hanno qualcosa da raccontarci e un po’ ci somigliano… non solo persone reali, ma anche personaggi di carta o di celluloide che noi percepiamo più veri di quelli incontrati per strada, anche quando finisce la magia e ci chiediamo cosa sarà della loro vita.
D: Possiedi una collezione di teiere e nel tuo studio vedo ben due opere con questo oggetto, che significato ha esso per te?
R: La mia collezione di teiere inizia quando nella vetrina di un negozio di Lincoln specializzato nel tè vedo una teiera speciale, la stessa che la protagonista del film Le notti della luna piena di Eric Rohmer – mio regista prediletto e uno dei miei mentori – regala al suo fidanzato architetto. Da quella visione della memoria alla mia piccola collezione di teiere di design a quelle più affettive o “normali”, che senza una precisa riconoscibilità hanno attirato la mia attenzione. Mi piace anche la simbologia legata alla teiera interpretata in alcuni contesti come utero che accoglie.
Le piccole installazioni in ceramica e vetro fanno parte di un percorso legato all’oggetto domestico che racconta microstorie: siamo tutti delle formichine al bordo dell’universo che inseguiamo l’ennesimo tiro di dadi, oppure eroi d’altri tempi che vengono da lontano come il Narciso della teiera, la piccola mosca che si specchia sulla superficie del tè materializzato in vetro; o il servizio, L’ora del tè, composto da oggetti bucati, senza fondo … la proiezione di uno stato d’animo di impossibilità, anche solo di un gesto così quotidiano come quello di bere un tè.
D: A proposito di incontri il tuo luogo di lavoro pullula di presenze. Cosa mi racconti delle donne che vedo qui vicino a me nell’opera Siamo i nostri incontri o degli uomini dell’opera In buone mani alla quale stai lavorando?
R: La prima opera nasce in modo curioso… mi è stato conferito un premio da parte di una società di canottieri di Torino che, coincidenza, si chiama Armida. Nella stessa occasione mi hanno regalato una felpa con scritto a caratteri cubitali il mio nome e l’anno di fondazione del club, 1869, che è un anagramma numerico della mia data di nascita. Ho pensato subito che non arrivava per caso e che potesse nascerne un lavoro: avrei chiesto alle donne della mia vita di indossarla e di fotografarle nel loro ambiente, di entrare nella pelle di Armida. Nel progetto In buone mani accolgo nelle mie piccole mani il viso di quelle figure maschile che hanno contribuito alla mia formazione. Le mani del titolo non sono tanto le mie che accarezzano, ma le loro alle quali mi affido.
D: A quali opere stai lavorando attualmente?
R: Molti dei miei progetti sono works in progress, quindi evolvendosi nel tempo si sviluppano parallelamente. In buone mani, iniziato con la fotografia di mio papà, sta prendendo una dimensione più ampia nel coinvolgimento di figure che non rientrano nella mia vita quotidiana. Sono reduce da una mostra in Portogallo, Tempo Stretto, una collettiva con Cesare Biratoni e Luca Scarabelli costruita attorno all’idea di contingenza e alle suggestioni del luogo, che mi ha portato a lavorare ad una serie di immagini che mescolano disegno e collage, superficie e oggetto.
Intervista di Anna Lisa Ghirardi per Espoarte trimestre N.4 2014