A Marnie di Gabriele Salvaterra
Tutto questo viaggio comincia per la verità nel reame dell’immaginario e delle sue possibilità. Una finzione orchestrata scientificamente, con perizia e spietatezza, come può accadere ad esempio nel cinema perfettamente architettato di Alfred Hitchcock. La televisione che si accende, il primo piano di una borsetta gialla che riempie lo schermo intero, i passi della proprietaria di questo accessorio che si incammina lungo la banchina allargando il campo, la schiena della donna sola al centro della scena. Così comincia Marnie (1964) e così comincia anche la magnifica ossessione per il cinema di un’Armida Gandini ancora bambina che osserva lo schermo in compagnia della madre. Da qui in avanti il cinema rimane una questione sottotraccia che innerva come un fiume carsico le esperienze e le ricerche dell’artista anche quando non sembrerebbe lontanamente impiegato. L’amore per François Truffaut, Hitchcock stesso ed Eric Rohmer, quest’ultimo anche oggetto di tesi accademica e sempre tenuto come riferimento nella sua concezione del cinema come di quell’arte in grado di rendere epica la vita comune. Autore di chiacchiericci ed eventi apparentemente poco significativi (vacanze estive, pranzi tra amici, appartamenti ristrutturati), in fondo è l’autore attraverso cui diventa possibile leggere e unificare tutta la poetica della Gandini: tirare fuori dai cassetti storie personali per dare loro valore universale. Ma l’insegnamento del cinema e dell’occhio dei registi si lega anche quell’approccio multimediale applicato dall’autrice che, esattamente come loro praticano, permette di concepire il lavoro come un dispositivo complesso nel quale entrano in campo diverse professionalità e supporti, abbandonando il purismo delle arti classiche.
Il battesimo di Marnie non lascia però soltanto influssi generali e diventa anche un ciclo con una propria autonomia, ora che Armida Gandini si sente pronta a fare i conti con l’eredità di un così importante testimone. Truffaut lo definisce un “grande film malato”:
Direi infine che il “grande film malato” soffre generalmente di una dose eccessiva di sincerità, che, paradossalmente, lo rende più chiaro agli aficionados e più oscuro al pubblico abituato a mandar giù delle misture nel cui dosaggio prevale l’astuzia piuttosto che la confessione diretta. Secondo me, Marnie rientra perfettamente in questa strana categoria dei “grandi film malati”, troppo trascurata dai critici cinematografici[8].
Questo eccesso di sincerità dà vita, anche nelle opere della Gandini, a una nebulosa ossessiva: una serie di video, installazioni, stampe modificate, ritagli e ceselli che si accaniscono sulle immagini di scena del film. La protagonista, una cleptomane incapace di amare, di cui è difficile conoscere storia e personalità, è ipersensibile verso il colore rosso che risveglia crisi incontrollabili e cela sotto la sua accesa tinta il mistero psicanalitico dello squilibrio comportamentale della donna. Nelle opere realizzate sullo spunto di questo film un virus cremisi contamina tutte le immagini, innalzando la temperatura emotiva delle inquadrature e mettendo il dito nella piaga degli istanti di più intenso shock. Ciò viene fatto con una paziente tessitura realizzata a penna a inchiostro rosso che, lenta e perseverante come un mantra, riconduce le immagini di scena alla loro chirurgica instabilità di partenza. Anche Armida, affrontando questa serie, si espone con grande onestà, rievocando in qualche modo gli albori della sua passione artistica e quel punto iniziale da cui, poi, tutto ha avuto luogo. Inoltre, l’incontro con Marnie – l’omaggio sincero che viene tributato a questo film problematico – rappresenta una sintesi dei vari aspetti su cui si incentra l’arte di Armida Gandini: la citazione emblematica, la centralità dell’infanzia (sia nell’intreccio del film che nell’incontro che l’autrice ha avuto con esso), i problemi dell’identità e delle loro trasformazioni, l’onnipresenza del cinema e dell’immaginario, il superamento degli ostacoli fisici e mentali che ci pone di fronte la vita. Il colore rosso, in questo senso, non è semplicemente un riferimento colto a un film classico degli anni Sessanta ma assume caratteri simbolici, andando a rappresentare tutto quel baratro vertiginoso dell’umano con cui dobbiamo fare i conti per venire a patti con noi stessi e conoscerci.
Dal testo Under Pressure pubblicato sul catalogo ARMIDA GANDINI edito da SKIRA in occasione della mostra La terra e le fantasticherie, Palazzo Martinengo Cesaresco, Brescia
Armida prova a intrattenere corrispondenze con i maggiori personaggi di finzione della storia della cultura e conserva le tracce di questi tentativi attraverso gli avvisi di mancato recapito a Marnie stessa, a Holden Caulfield (il protagonista de Il giovane Holden) o al Principe Lev Nikolaevič Myškin (L’Idiota di Dostoevskij). La dimensione immaginaria conserva un primato nella ricerca dell’autrice ma viene fatta emergere, come nel caso della ricevuta di non avvenuta consegna, attraverso strumenti di autenticazione, documenti e materiali che sembrano contraddire ogni fantasticheria con la loro a volte prosaica verità. Gabriele Salvaterra